L’esposizione universale di Osaka del 1970 è stata, insieme alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, uno degli avvenimenti che più ha riflesso, nel bene e nel male, i cambiamenti che hanno investito l’arcipelago giapponese nella seconda metà del secolo scorso. A molti degli artisti che furono invitati a partecipare all’evento fu criticato il fatto di essersi «venduti» ai poteri centrali, cioè di aver istituzionalizzato l’arte, dopo che le proteste e le rivolte urbane e contadine degli anni Sessanta avevano cercato un’arte che fosse prodotta al di fuori da cerchie istituzionali. Dall’altro lato, alcuni degli artisti criticati sostenevano di poter cambiare il sistema dal suo interno e che il cambiamento dovesse essere prima di tutto di tipo percettivo e inerente alla costruzione della soggettività.

Uno degli artisti che partecipò all’esposizione di Osaka fu Toshio Matsumoto che, con alcuni dei suoi cortometraggi, aveva riflettuto sulle proteste contro l’Anpo e sul fervore artistico-politico dei Sessanta, ma anche realizzato, nel 1969, uno dei primi capolavori del cinema queer, Bara no soretsu (Funeral Parade of Roses).
Ad Osaka, Matsumoto portò Space Projection Ako, lavoro proiettato su dieci schermi all’interno di un padiglione dedicato al tessile. Già nell’esposizione universale tenutasi a Montreal nel 1967 del resto, molti artisti avevano cominciato a sperimentare con proiezioni anomale o su diversi schermi. Si ricordi almeno Canada 67 realizzato dalla Walt Disney, lavoro in cui gli spettatori erano circondati da nove grandi schermi dove venivano proiettate le immagini. Da un lato un’arte finanziata da grandi compagnie, in Space Projection Ako una compagnia tessile, per Canada 67 la compagnia telefonica del paese nordamericano, dall’altro una sperimentazione che esplora i limiti, le possibilità ed il ruolo del medium visivo nella società contemporanea.

Un affascinante esempio di questa duplicità è Ichi nichi 240 jikan (240 ore in un giorno), lavoro proiettato anch’esso all’esposizione di Osaka e diretto da Hiroshi Teshigahara su un’idea di Abe Kobo. Si tratta dell’ultima collaborazione fra i due artisti, che insieme crearono alcuni dei lungometraggi giapponesi più significativi di quegli anni come La donna di sabbia e Il volto dell’altro. 240 ore in un giorno è stato riscoperto e restaurato solamente negli ultimi anni ed è stato proiettato nel corso dell’ultimo Osaka Asian Film Festival, manifestazione conclusasi la settimana scorsa.
Della durata di 22 minuti, il cortometraggio originariamente fu proiettato all’esposizione universale su quattro schermi, tre sistemati orizzontalmente, il quarto, di forma trapezoidale, sistemato quasi sul soffitto. Il film è ambientato in una città del prossimo futuro, dove il dottor X e la sua assistente hanno creato una nuova sostanza, l’Acceletin, che velocizza le azioni umane e che quindi permette di «allungare» le giornate a 240 ore, forse una citazione ed omaggio ad Alfred Bester, ma anche al manga Cyborg 009.

Il lavoro sperimenta una vertiginosa combinazione di generi, sempre molto giocosa, mettendo insieme fantascienza, commedia, musical, animazione, documentario e metafiction. Il tema della velocità ha evidenti riferimenti ai cambiamenti prodotti nella società dall’invenzione dei mezzi di trasporto, fu d’altronde proiettato nel padiglione dell’automobile, ma soprattutto nelle sue battute conclusive, quando il dottore gira così vorticosamente da diventare una ruota, suggerisce il lato negativo di questa società accelerata e i cambiamenti, quasi post-umani, che le nuove tecnologie portano con sé.

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