Le condizioni di vita in Libia stanno ulteriormente peggiorando a più di quattro mesi dall’inizio di questa terza guerra civile alle porte di Tripoli, iniziata il 4 aprile, e non solo per i migranti che restano sull’ultimo, infimo, gradino sociale.

È addirittura la Guardia costiera libica, che negli ultimi giorni ha «salvato» – cioè riportato a terra – 122 migranti salpati dalla costa della Tripolitania a bordo di gommoni sgonfi, a dichiarare che nessuno più si occupa della loro sorte: per lo più restano sulla banchina, sdraiati a terra, anche donne e bambini accampati in qualche angolo del porto dove vengono sbarcati. I centri di detenzione di Tajura, al Khoms e Misurata del resto sono chiusi e il capitano Ayoub Qassim ha chiesto alla missione Onu (Unsmil) di occuparsene.

I cittadini di Tripoli – anche se non fanno parte dei 105 mila sfollati – sono alle prese con difficoltà crescenti negli approvvigionamenti di acqua e benzina – il 40% delle stazioni di servizio sono fuori uso – e nello smaltimento dei rifiuti urbani . E mentre i combattimenti – e in special modo i bombardamenti – continuano a martoriare i sobborghi meridionali della capitale inghiottendo soldi (altri 23 milioni di euro stanziati ieri dal premier Serraj), armi – anche droni israeliani dalla Turchia – e soldati ingaggiati a sempre più caro prezzo da altre città (siamo oltre i 1.100 morti e nessuno ha più un bilancio aggiornato), si segnalano altre due sparizioni forzate.

Un alto funzionario del ministero della Giustizia di Tripoli, Abdurahman Mohamed al Tarhouni, è scomparso in circostanze misteriose e dopo due giorni il suo corpo è stato trovato cosparso di segni di un pestaggio a morte e torture.

Sparito da tre giorni anche il capo dell’intelligence di Bengasi, Ramadan Albarasi, e il comando dell’Esercito nazionale libico (Lna) si è rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti su che fine abbia fatto. La voce che circola è che sia stato giustiziato perché ritenuto responsabile della sconfitta strategica nella postazione di Gharyam.

Mentre l’assordante silenzio sul rapimento della deputata Sehan Sergewa, sequestrata da uomini armati nella sua casa di Bengasi lo scorso 17 luglio, crea ora «forte preoccupazione» nella missione Unsmil.

Una fonte anonima ha confermato i sospetti del marito e dei figli che sia stata catturata – e uccisa – da soldati della 106° Brigata agli ordini del figlio di Haftar, Saddam, come «punizione» per una intervista televisiva in cui criticava la retorica guerresca del generale. Il governo di Tobruk, a lui fedele, ha invece attribuito l’azione a non meglio precisati «terroristi».

In questo caos l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassam Salamé ha reiterato la proposta di tregua in occasione della festa del sacrificio, l’Eid al Adha, che inizia oggi per concludersi il 15 agosto. Una finestra per uno scambio di prigionieri e soprattutto per arrivare a un cessate il fuoco più duraturo nel quale far ripartire il dialogo tra le controparti.

Fino a ieri sera è stata manifestata però solo una cauta disponibilità delle forze della controffensiva «Vulcano di Rabbia» per consentire le visite delle famiglie ai prigionieri di guerra.

Quanto alla strage della scorsa settimana a Murzuq (42 morti) nel Sud del Paese neanche l’Onu riesce a capire cosa sia realmente successo: le versioni divergono troppo.