Di primo acchito tutto sembra cambiato, tornando un anno dopo nel capoluogo abruzzese devastato dal terremoto del 6 aprile 2009. Immersi nel traffico caotico della periferia dove i palazzi sono ormai quasi del tutto restaurati e molti negozi sono stati riaperti, quando si alza lo sguardo verso quel centro tanto compianto e agognato dagli aquilani, lo skyline appare come una selva impressionante di gru. Il via vai di camion che salgono su per via XX Settembre, passano davanti al ground zero della Casa dello studente e ruotano attorno al “decumano” centrale, sembra un segno di vitalità insperata, dopo quasi sei anni da quel terribile sisma che produsse 65 mila sfollati e uccise 309 persone.

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Dunque sembra avere ragione il neoministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio, quando dice, come ha fatto ieri, che «L’Aquila ha molte risorse a disposizione che abbiamo stanziato come Governo perciò ce la farà, assolutamente. Anzi la ricostruzione post terremoto sta andando molto bene». Altro che «Immota manet», come recita il motto della città, verrebbe da dire.

Ma è solo l’apparenza. Basta aspettare le sei della sera o i fine settimana, quando i cantieri si chiudono e gli operai tornano a casa – spesso in abitazioni condivise, perché per la stragrande maggioranza sono “fuorisede”, provenienti da 86 province diverse d’Italia, soprattutto dal sud – per capire che la realtà è ben diversa. Quel centro che prima della costruzione delle 19 new town berlusconiane coincideva con l’essenza stessa dell’aquilanità, è morto. Tirandosi dietro la vitalità ( e i consumi) di tutta la città, malgrado la periferia sia stata quasi del tutto ricostruita “com’era e dov’era” e un terzo degli esercizi commerciali abbia riaperto i battenti.

E per resuscitare davvero il centro storico, la cui ricostruzione è ferma, come ebbe a dire qualche tempo fa lo stesso sindaco Massimo Cialente, a «non più del 2%», serve uno sforzo politico, perché – spiega Giustino Masciocco, di Sel, presidente della commissione comunale Bilancio – «non basta lo stanziamento di finanziamenti statali che peraltro in questi sei anni ha subito continui stop and go». «Il problema – continua Masciocco – non è tanto la quantità di denaro che viene trasferita dallo Stato alle casse del comune, ma la continuità di flusso che finora non c’è stata e senza la quale l’amministrazione non può programmare la ricostruzione pesante».

I lavori nel centro storico – dove per un aggregato occorrono tra i 9 e i 20 milioni di euro, l’equivalente della ristrutturazione di una ventina di condomini in periferia, – in realtà sono ripartiti solo da qualche settimana perché durante il governo Renzi è stata smantellata di fatto la governance della ricostruzione, a cominciare dal sottosegretario Giovanni Legnini, che deteneva la delega, andato a settembre a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Csm e sostituito dalla sottosegretaria Paola De Micheli solo all’inizio del 2015.

Spulciando poi il riepilogo dei finanziamenti alla ricostruzione privata prodotto dal comune dell’Aquila, si vede che nel quinquennio 2009-2014 sono stati stanziati 3,5 miliardi comprensivi di cui 1,8 miliardi provenienti dalla Cassa depositi e prestiti. Materialmente, però, sono stati trasferiti nelle casse del comune solo 3,3 miliardi. Sono i soldi con i quali si è avviata la cosiddetta ricostruzione leggera, ossia quella delle periferie del capoluogo e di tutti i paesi del cratere sismico. Ma mancano ancora 165 milioni.

Non solo: «Una volta che vengono stanziati i soldi – spiega ancora Masciocco – occorre che il Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, deliberi l’assegnazione, poi bisogna attendere la pubblicazione del decreto e infine i bonifici. Solo allora il comune può accreditare al cittadino che deve ristrutturare la propria abitazione una prima tranche di finanziamento pari al 46% dell’indennizzo autorizzato… Per ogni passaggio però bisogna attendere mesi e mesi».

«Quando Delrio parla di risorse stanziate forse si riferisce all’ultima riunione del Cipe del 20 febbraio scorso che ha assegnato all’Aquila 800 milioni ma – continua il presidente della commissione Bilancio – siamo ad aprile e per il 2015 il comune sta ancora aspettando in incassare i finanziamenti assegnati per quest’anno con le delibere Cipe del 2012, del 2013 e del 2014, per un totale di 478 milioni, che si vanno ad aggiungere a quei 165 milioni ancora mancanti. Fino a quando non arriveranno questi soldi, le casse sono vuote e non potremo completare i finanziamenti dei cantieri già aperti».

Nel frattempo però sulle spalle dell’amministrazione aquilana pesa pure la costosa manutenzione di quei 5 mila edifici – tra le C.a.s.e delle new town, i moduli abitativi provvisori chiamati Map e i corrispondenti Musp per le scuole – costruiti dopo il terremoto dal governo Berlusconi e oggetto di attenzione da parte della magistratura.

Tutto questo in un territorio che ha perso negli ultimi due anni 17 mila posti di lavoro, in tutti i comparti compresa l’edilizia ed esclusa solo l’agricoltura. I dati li snocciola Umberto Trasatti, segretario provinciale della Cgil: «Nel 2012 c’erano 124 mila occupati, oggi ce ne sono 107 mila nella provincia dove la disoccupazione è al 13,9% contro la media nazionale del 12,7%. Allora, quando si stava concludendo la ricostruzione leggera, gli edili che lavoravano nel più grande cantiere d’Europa erano 16 mila, a dicembre 2014 se ne contavano 12 mila. Per quanto riguarda la cassa integrazione, la metà delle ore autorizzate nell’intera regione nel primo bimestre 2015 riguardano l’aquilano. E di queste, oltre il 90% sono di cassa integrazione straordinaria. Inoltre 1500 lavoratori aquilani da aprile 2014 non percepiscono la cassa in deroga perché non ci sono i soldi».

Secondo la legge Barca però il 5% delle risorse stanziate per il post terremoto avrebbero dovuto essere destinate al rilancio delle attività economiche. Ma «le uniche aziende che vanno a gonfie vele sono quelle del settore farmaceutico e quelle dell’aerospaziale di Finmeccanica», riferisce Trasatti. Che ricorda: «Quando l’allora ministro Barca presiedeva il Cipe, vennero stanziati 100 milioni per il rilancio economico. Il problema è che le procedure per spenderli sono talmente lunghe e farraginose che ci sono voluti due anni per fare approvare i progetti. E pensare che quei soldi pubblici hanno mosso complessivamente investimenti per oltre 400 milioni di euro».

Ovviamente, come dimostrano tante inchieste, ad essere interessati l grande giro di appalti sono anche i tanti clan – Casalesi in testa – che si sono infiltrati nel business della ricostruzione. «La procura aquilana però – conclude Trasatti – sta facendo un ottimo lavoro. Certo, aiuterebbe una nuova legge sulla ricostruzione che detti norme più puntuali su come scegliere le imprese, sulle white list, su appalti e subappalti. Il confronto era stato avviato con Legnini e da poco è stato ripreso da De Micheli».

Ma a vigilare sul tutto ci sarà d’ora in poi anche un pool di inquirenti appositamente costituito dal procuratore dell’Aquila, Fausto Cardella, ispirato al modello della Direzione nazionale antimafia soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di banche dati per la condivisione di informazioni.

Ma «in cantiere» c’è anche dell’altro: alla vigilia del sesto anniversario del sisma Delrio ha annunciato: «Credo che L’Aquila attenda la visita del presidente del Consiglio, che sicuramente la metterà in cantiere». Non è proprio una promessa ma forse farà sentire meno soli gli aquilani che si preparano a ricordare quella terribile notte.