Prima Norma, da ieri sera Miriam: sono i nomi dati alle tempeste che stanno colpendo da giorni il Medio Oriente. Neve, piogge, temperature sotto lo zero hanno già cominciato a uccidere: ieri l’Unicef ha denunciato la morte per congelamento di almeno 15 bambini siriani in due diversi campi profughi nel paese.

Campi improvvisati, dove le organizzazioni internazionali non arrivano. La situazione è drammatica nel vicino Libano con 66 campi in piena emergenza (le foto delle tende di Arsal, da noi, sono state spacciate per le casette dei terremotati nel Centro Italia), ma in Siria è devastante per l’isolamento in cui sono costretti a vivere da mesi, anni, gli sfollati interni.

Otto bambini sono morti nel famigerato campo di Rukban, sorto spontaneamente al confine con la Giordania e dal 2015 chiuso dalle autorità di Amman per timore di attentati terroristici dopo un attacco contro le guardie di frontiera del regno hashemita. Qui, in mezzo al deserto, d’estate si muore di sete e malattie, in pieno inverno di freddo.

Altri sette minori hanno perso la vita ad Hajin, nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor, da cui da settimane decine di migliaia di civili sono in fuga per gli scontri tra il sempre presente Stato Islamico e le Forze Democratiche Siriane. L’Unicef prova a svegliare le coscienze, il suo direttore regionale Geert Cappelaere lo fa con l’età dei bambini: il più piccolo aveva solo un anno.

L’emergenza si concentra a Rukban, dove l’80% dei 45mila rifugiati presenti sono donne e bambini e il tasso di mortalità infantile è in costante aumento per la mancanza pressoché totale di assistenza sanitaria.
Gli ultimi aiuti umanitari, portati da convogli dell’Onu solo dopo un estenuante negoziato, sono entrati all’inizio di novembre. I rifugiati vivono in mezzo al nulla, abbandonati a se stessi: due giorni fa una donna ha tentato il suicidio dandosi fuoco con i figli per la disperazione, tra tende portate via da vento e pioggia e i pochi averi distrutti dall’acqua.

«Le vite dei bambini continuano ad accorciarsi per qualcosa di prevedibile e curabile – denuncia Cappelaere – Non ci sono scuse per tutto questo nel ventunesimo secolo. La storia ci giudicherà per queste morti evitabili». Eppure a dicembre il ministero degli esteri giordano lo ha ribadito: Amman, che ospita 630mila siriani, non farà entrare nel proprio territorio i profughi di Rukban.

Hajin, a Deir Ezzor, non è certo un’oasi felice: i civili in fuga dagli scontri e i raid Usa (sì, ritiro o meno, ci sono ancora) arrivano nei campi a nord gestiti dai curdi a piedi, tra pioggia torrenziale e neve. Ci impiegano giorni a raggiungere un riparo, sfiniti e denutriti.

E poi c’è la provincia di Idlib, dall’altra parte, a ovest: qui, denuncia l’Unhcr, almeno 11mila bambini e le loro famiglie si sono ritrovati senza riparo a causa delle piogge che hanno colpito la zona e le temperature scese sotto lo zero. Le tende sono distrutte e non ci sono più coperte disponibili.

«Il numero di persone che si sono spostate a Idlib nel corso dell’anno è enorme – dice Caroline Anning di Save the Children – C’è il rischio che altre ne arrivino». Arrivano dove di aiuti ce ne sono ben pochi: mancano strutture mediche e la tempesta ha reso irraggiungibili molte aree della provincia.