Lo storico summit di Singapore tra Kim e Trump è trascorso ormai da due giorni ma la sua natura – una tappa di un processo in divenire – ha già confermato la fluidità delle relazioni tra Stati in Asia, e la necessità di capire in modo più efficace che cosa possa significare da qui a breve.

Ieri il segretario di Stato degli Usa Mike Pompeo è volato in Corea del Sud e oggi sarà invece a Pechino: la rapidità della sua azione permette di comprendere il peso, benché non suffragato da una concretezza granitica, dello show a cui abbiamo assistito a Singapore. Anzi, forse solo con gli incontri – e saranno tanti – cui da oggi dovremo abituarci, si riuscirà a decifrare meglio quanto realmente accaduto.

Il documento firmato da Trump e Kim, infatti, non fa altro che ribadire buoni propositi; i dialoghi tra Usa, Coree, Cina e Giappone chiariranno chi potrebbe essere davvero soddisfatto di questa attuale situazione e chi invece rischia di rimanere con il cerino in mano.

Ad ora il maggiore indiziato per il ruolo di sconfitto è il Giappone. Tokyo, nonostante i comunicati ufficiali viranti all’ottimismo, non sembra gradire quanto sta accadendo e ancora ieri il premier Shinzo Abe – che ha non pochi grattacapi anche da un punto di vista interno – ha detto di essere pronto a incontrare Kim Jong-un. Un confronto diretto con Kim, ha detto Abe, «è il modo migliore per risolvere l’annosa questione dei cittadini giapponesi vittime dei rapimenti di stato nordcoreani. Sono determinato a risolvere la questione parlando direttamente con la Corea del Nord».

Subito dopo il meeting con Kim, Abe avrebbe avuto una telefonata di mezz’ora circa con Trump per farsi raccontare nel dettaglio la giornata a Sentosa. Poi lo ha ringraziato perché il presidente americano avrebbe fatto notare, nel dialogo di quaranta minuti con Kim, la necessaria soluzione per i rapiti giapponesi.

Un ringraziamento algido, segno che a Tokyo la situazione non appare molto positiva. Se consideriamo anche la fine annunciata delle esercitazioni militari di Washington con Seul, appaiono più chiare le preoccupazioni giapponesi. E così, se Abe sembra provare a fare buon viso a cattiva sorte, è stato il ministro della difesa giapponese a impersonare lo scetticismo dell’amministrazione.

Secondo Itsunori Onodera, infatti, «le esercitazioni americane con la Corea del Sud rappresentano un’importante garanzia di sicurezza per tutta l’Asia». Per Tokyo, insomma, siamo tornati ai tempi della grande diffidenza nei confronti di Washington, come dopo l’affossamento del Tpp; forse per questo Abe vuole parlare direttamente con Kim: una mossa che in realtà potrebbe nascondere la volontà di aggirare la mediazione della Casa bianca. Tokyo avrebbe già notificato a Pyongyang il proprio desiderio: Abe vuole fare in fretta, perché la scacchiera è piuttosto complessa.

Per quanto riguarda i viaggi di Mike Pompeo, ieri era a Seul a incontrare Moon Jae-in nel tentativo di trovare una quadra per i passaggi successivi in relazione alla Corea del Nord, anche se il tema più caldo sembra quello della fine delle esercitazioni.

Un argomento che al momento non appare tanto spinoso, quanto imperscrutabile: «Per ora, dobbiamo ancora scoprire l’esatto significato e le intenzioni delle frasi di Trump», ha detto il portavoce dell’ufficio della presidenza di Seul, Kim Eui-kyeom.

Da parte sudcoreana però, viene specificato, non ci sono opposizioni; del resto uno dei messaggi più chiari nella campagna elettorale di Moon era stato quello di poter «dire dei no» proprio agli americani. «Finché Corea del Nord e Stati uniti saranno impegnati in serie discussioni sulla denuclearizzazione della penisola coreana e l’avviamento della pace, riteniamo di dovere considerare vari modi per fare procedere questo dialogo», ha concluso il portavoce.

Dopo Seul per Pompeo sarà la volta di Pechino: «Verranno discusse le relazioni bilaterali, e verranno scambiate opinioni su importanti questioni internazionali e regionali di interesse comune», ha annunciato il portavoce del ministero degli esteri cinese, Geng Shuang.

Di sicuro anche la Cina vorrà sapere i particolari non emersi a Singapore, ma tra Usa e Cina al momento, dopo i dazi, c’è una nuova grana, ovvero l’apertura dei nuovi uffici dell’American Institute di Taipei, in pratica una sorta di ambasciata de facto.

Su queste cose Pechino è facilmente irritabile e a Washington lo sanno bene: potrebbe essere una mossa che va a bilanciare la fine delle esercitazioni. In questo marasma diplomatico le idee più chiare di tutti le ha sempre lui, Trump. Appena atterrato negli Usa ha twittato, sostenendo che da oggi la Corea del Nord non è più un pericolo per il mondo, al contrario di quanto accadeva durante la presidenza Obama. Dobbiamo stare tutti tranquilli, anzi – come ha twittato Mr President – «dormite tranquilli!».