Il mare si è calmato per l’ultimo tappeto rosso, c’è chi ha dormito la notte all’aperto per conquistarsi le prime file dietro le transenne sperando in un selfie con Mick Jagger, tra i protagonisti del film di chiusura, The Burnt Orange Heresy, il solo motivo per scegliere un film così che non è proprio – «chiudere in bellezza». Sul Lido dove echeggia rumore di valigie, è scattato il codice rosso sicurezza dopo che gli attivisti No Grandi Navi hanno occupato al mattino la passerella: blindati della polizia e divieto anche alle bici nella zona intorno al Palazzo del cinema.

I cinefili e i professionisti sono partiti, la serata è per il pubblico, gli ospiti d’onore – in sala ci sarà anche il neo ministro della cultura Franceschini – gli influencer, mentre gli abitanti del Lido assaporano già la felicità di tornare ai loro rituali di calma quotidiana. Che Mostra è stata questa numero 76, nei giorni della crisi di governo e del passaggio dal giallo-verde al giallo-rosso vissuto con la distanza della bolla in cui un festival risucchia la realtà? Al di là delle decisioni della giuria di Lucrecia Martel – Mary Harron, Shinya Tsukamoto, Paolo Virzì, Stacy Martin, Piers Handling, Rodrigo Prieto – un’edizione senza grandi rischi «cinematografici» (le polemiche sono nate al di là dei film, come per la presenza di Polanski), che ha puntato su registi solidi del cinema mondiale – da Larrain a Soderbergh, Gray, Guédiguain, Assayas – cast e titoli di rilievo mediatico, budget importanti, abbastanza equamente divisa tra Americhe e Europa, con poche (belle) sorprese tra invece i nomi non conosciuti – la giovane regista australiana Shannon Murphy col suo Babyteeth – in cui il cinema più formalmente audace e sintonizzato con la contemporaneità è stato quello italiano. I film di Martone (Il Sindaco del Rione Sanità), Marcello (Martin Eden), Maresco sono apparsi quelli più liberi nelle loro scommesse con la realtà, nel confronto con l’immaginario, e coi sentimenti del presente.

Ci hanno detto qualcosa sullo stato del cinema i 21 film in corsa per il Leone – due soli di registe? La questione delle «quote», più discussa in questi giorni della presenza di Netflix nella gara?

AFFARI DI FAMIGLIA

Il titolo del precedente film di Kore-eda, esprime una tematica ricorrente in molti dei film della competizione e non solo, la centralità cioè della famiglia nella relazione col mondo. E non come gruppo di persone insieme per scelta, per innamoramento reciproco, per affinità ma nel modo canonico di legami familiari, tra Freud e dintorni: padre/figlio, madre/figlia. Liti, rivincite, tradimenti e punizioni. Fino alle morali distorte di film come quella di Un Fils – negli Orizzonti di Mehdi M.Barsaoui, dove il tradimento anni prima della moglie mette in pericolo la vita del figlio, ferito in un attacco di integralisti (la mano di dio) e ricoverato in un ospedale nel mezzo del nulla dove tutti sono ferventi religiosi perché nessuno dei genitori può donargli l’organo necessario alla sopravvivenza. Il marito detesta la moglie, il medico la guarda con rimprovero. L’hanno presentata come una metafora del patriarcato ma il punto di vista critico si fatica parecchio a scorgere. Del resto già il film di apertura aveva messo sotto al segno dei legami famigliari il festival: La verité col duetto vero/falso tra Catherine Deneuve, la madre, e Juliette Binoche, la figlia.

Al maschile la seduta psicanalitica di Ad Astra, che diviene un po’ l’inconscio di una nazione, il sogno americano degli anni sessanta di eroi e conquista dello spazio, che svanisce con le guerre, l’impoverimento, la violenza. Come liberarsi dei padri scomodi che ti rimangono sulle spalle per l’intera vita generazione che non vuole rinunciare alla centralità? Il figlio Brad Pitt contro il simulacro del padre Tommy Lee Jones. Perché i padri uccidono (A herdade di Tiago Guedes) se non vengono distrutti.E se invece fossero i figli i colpevoli? La figlia può arrivare a uccidere per amore della madre (morta), per eccessivo attaccamento al padre (Guest of Honour).

IL COLORE DEI SOLDI È quello del nostro tempo. I soldi hanno una «vita segreta» su cui si è conformato il mondo come ci spiega con molto umorismo Soderbergh (The Laundromat). Lo determinano, ne sono la sostanza, strangolano e accarezzano specie oggi in epoca di precariato, sfruttamento, fine di solidarietà di classe. Che succede quando la vita quotidiana è solo un affanno per guadagnare la sopravvivenza (Gloria Mundi)? I soldi sono potere e crimine, morale persino con sfacciata certezza – Il sindaco del Rione Sanità. Sono neoliberismo che taglia il welfare, le scuole, la sanità pubblica. Il mondo è lusso e miseria (Joker).

EROTISMO Sempre poco anzi niente. Il film in cui si fa più sesso è Ema di Pablo Larrein. Ma anche se bigender non è mica per puro piacere, il sesso segue un progetto preciso: fare un figlio e creare una famiglia che anche se a doppia coppia è più dogmatica che mai. All’opposto Marriage Story, la coppia si lascia ma tra i due – anche nel massacro – e in tutto il film, c’è la tessitura del sentimento e senza dimostrazioni. Qualcosa di difficilissimo al cinema che lo rende un film speciale.

POLITICA È dentro la storia e nell’attualità ma soprattutto in quel cinema che è politico nella sua sostanza – La mafia non è più quella di una volta; J’accuse; Il sindaco del Rione Sanità – che sono le scelte formali e la capacità di costruire una relazione col pubblico. Senza teoremi, nell’indipedenza dello sguardo.