La Sala del Mappamondo, al secondo piano di Montecitorio, è affollata per l’ultimo scambio di auguri fra Laura Boldrini e i cronisti. Ma la folla scarseggia a presidenti dei gruppi parlamentari, che per prassi e buona creanza sono presenti in occasioni simili. O, meglio: ci sono quelli di Mdp (Laforgia) e Sinistra italiana (Marcon), si notano per assenza quelli della maggioranza. Non c’è il presidente dei deputati Pd Ettore Rosato, e neanche uno dei suoi numerosi (sette) vice. Piccolo evitabile sgarbo finale da parte dei sedicenti maestri di etichetta di palazzo.

Boldrini si accomiata distribuendo l’opuscolo «Cifre e fatti», il bilancio dei suoi «cinque anni complicati». Un numero di cui è «orgogliosa»: i 350 milioni di tagli e risparmi che ha imposto al suo Palazzo. I temi su cui ha lavorato: disuguaglianze, donne (fiore all’occhiello, il linguaggio sessuato: «Quello che non viene detto non esiste, prima qui eravamo tutti uomini») e violenza sulle donne (ricorda le 1.400 attiviste che il 25 novembre hanno invaso Montecitorio), diritti, violenza sulla rete e disinformazione, Europa, antifascismo, (ricorda la commovente cerimonia per i 70 anni dalla Liberazione e una Bella ciao intonata da tutto l’emiciclo, «è venuta da sé»; e ancora «non ho mai mancato un 25 aprile»). La mancanza di lavoro, dice, «corrode la democrazia» e aumenta «la rabbia e il rancore figli diretti del sentimento di esclusione diffuso nella nostra società». A qualcuno suona come un manifesto per il suo imminente futuro politico. In realtà sono temi di impegno civile auspicabilmente trasversali.

Del suo futuro parlerà il 22 dicembre a Roma, nel popolare quartiere di San Lorenzo, nell’ex Pastificio Cerere ora luogo di artisti. Sarà un futuro in prima fila nel fronte dei Liberi e uguali capitanato dal presidente Grasso. Ma «parlare ora delle mie scelte sarebbe una sgrammaticatura, mantengo questo profilo istituzionale fino alla fine della legislatura. Ci tengo ad andare avanti fino all’approvazione della legge di bilancio», dice.
Nell’altro ramo nel parlamento ha fatto altrettanto Grasso, ma non gli è valso a risparmiargli le polemiche per l’impegno diretto in politica da seconda carica dello stato. Dopo gli inconsistenti attacchi per aver mostrato il simbolo della nuova lista su Raiuno, ieri invece sono arrivati quelli sulla comparsa della stessa insegna rossa sul sito istituzionale del senato. Da palazzo Madama si fa sapere che la pagina ufficiale viene alimentata automaticamente dai tweet di Grasso, e alcuni degli ultimi sono fatalmente meno istituzionali di altri. «In passato sono apparsi altri loghi dei partiti, compreso quello del Pd in occasione della festa dell’Unità», spiegano dallo staff. In quel caso nessuno si era lamentato. La colonna dei tweet comunque è stata rimossa.

Ma dal fronte dem le polemiche su Grasso sono un po’ su tutto, come dimostrano le accuse di Matteo Richetti sul tema dei vitalizi. È certo che dopo il 22 sono destinate a raddoppiare. Improbabile che sarebbe andata così se i due presidenti si fossero schierati in alleanza con il Pd. Da quella parte nel frattempo è tutto un fuggi-fuggi. Ieri il sindaco di Cagliari Massimo Zedda era a Roma, ha sentito Renzi e Fassino ed ha confermato il suo «sostegno» alla lista alleata ai dem (probabile nome Sinistra progressista). Ma lui non si candida: «Faccio il sindaco di Cagliari e voglio continuare a farlo», ha detto a Un giorno da pecora. Orientato verso il no a Renzi anche Massimiliano Smeriglio, ex colonna romana di Pisapia ed ora attestato sul fronte della regione Lazio, dove il presidente Nicola Zingaretti è già al lavoro per la conferma.