Matteo Righetto torna in libreria con Il sentiero selvatico (Feltrinelli, 240 pagine, 18 euro), un nuovo romanzo ambientato tra i boschi e i villaggi ladini ai piedi delle Dolmiti. La protagonista è Tina Thaler, una figura singolare che ricorderà chi ha letto il precedente La stanza delle mele, considerata una strega ed emarginata dalla comunità, «capro espiatorio, vittima di pregiudizi maledettamente falsi e ingiusti» ricorda Righetto, che ha scelto di raccontarne la vita, da quand’era bambina, per spiegare com’è maturata in lei la scelta di una vita selvatica, partendo dall’infanzia vissuta in un maso a Larcionèi e attraversando da profuga la Prima Guerra Mondiale. «È un personaggio affascinante, erotico nel senso di pieno di desiderio, di vita, con uno scopo nella vita da raggiungere. Sono i soggetti che ho sempre amato da lettore, e che da scrittore amo creare, perché quando inizio a scrivere un libro voglio costruirmi un sogno: Tina è nata per questo, da un mio desiderio di conoscerla» spiega Righetto, che ci accompagna lungo un sentiero selvatico che si nutre di un «realismo magico» montano, tra leggende e tradizioni ancestrali come quella della Tsicùta, «una vecchia maga chiamata che ha al suo servizio tutti gli animali selvatici ed è sposata con un corvo parlante», che fa parte dell’universo ladino e dolomitico ma è rintracciabile in tutte le culture indigene e contadine.

L’AUTORE – NATO A PADOVA, ma innamorato delle Dolomiti, da novembre 2023 anche presidente della sezione Cai di Livinallongo-Colle Santa Lucia, nel bellunese – fa uso di fonti storiche relative alla vita sulle Dolomiti all’inizio del Novecento e al primo conflitto mondiale, per ricostruire un mondo reale e realistico, che esisteva davvero in quelle vallate e in quegli anni, all’interno del quale inserisce l’elemento fantastico, nel senso buzzatiano o calviniano.

Fin dal titolo, il suo romanzo richiama il selvatico, un termine e un tema che oggi spaventa molti. Il lettore scoprirà però un invito a superare questa paura, che esisteva anche nella società rurale che si preparava alla Prima guerra mondiale. Perché?
È un tema che ho sempre sentito, fin da bambino, in questo Tina è un po’ me ed io vorrei essere fino in fondo come lei, che ha una percezione del mondo molto più poetica, che rappresenta quella necessaria riconciliazione di un equilibrio ecologista tra tutti gli elementi della Natura, che ridà dignità anche agli animali selvatici, o meglio ai predatori selvatici, come l’orso e il lupo. È antispecista nel suo senso della vita, con il richiamo al mondo selvatico. Voglio sperare che questo romanzo ci richiami alla necessità di ricostruire un equilibrio, che significa fratellanza, rispetto e co-evoluzione, con la Natura, senza più dover cercare nel diverso, che sia lo straniero o il selvatico, il capro espiatorio delle proprie colpe. Viviamo in un mondo che sta per esplodere dal punto di vista bellico, l’epilogo di un lungo flusso nazionalista e di disgregazione sociale che avanza da anni, e noi ancora oggi ce la prendiamo con i lupi, con gli orsi. Accadeva alla vigilia della Prima guerra mondiale e si sta rimanifestando adesso. Non abbiamo assunto una consapevolezza ecologica che sia anche una necessaria rivoluzione culturale.

Matteo Righetto
Matteo Righetto

Come accade spesso nei suoi lavori, gli elementi naturali (siano alberi, piante, utensili, cime) hanno tutte un nome. In che modo fa parte di questa consapevolezza ecologica da ricreare?
La mia non è una scelta nozionistica né erudita, ma la necessità di dare identità, valore e un significato profondo a tutte le cose, per un’etica della terra, come diceva Aldo Leopold. Nel momento in cui noi parliamo del valore della biodiversità, anche in letteratura si deve riflettere questo, perché un abete bianco non è un abete rosso. Io la chiamo bio-unicità, che allargando il campo apre alla bio-coltura e alla bio-cultura, diversità culturali e ambientali che realizzano comunità montane diverse le une dalle altre. Tutte le foglie di un albero sono diverse, così i fiocchi di neve e le vite degli altri: questo dà spessore e ricchezza in una rappresentazione del mondo. Il concetto romantico di Natura, ottocentesco, non funziona più: il mio è un invito ad osservare le diversità, che sono forme di ricchezza.

Che cosa può insegnarci, oggi, osservare queste comunità montane del primo Novecento?
La ciclicità del tempo, che ne scandisce la vita. Ma anche elementi come la coltivazione della canapa, con cui si faceva di tutto, oggi abbandonata. O l’attività boschiva, delle regole (proprietà collettive, ndr), che tagliavano e gestivano il bosco sapientemente, non andando mai oltre la misura sostenibile, per non intaccare il proprio capitale, mentre oggi per fare una pista da bob inutile a Cortina si vanno a tagliare dei larici secolari. Voglio sperare che questo romanzo inviti a fare una riflessione tra passato e presente, senza idealizzare, perché quelli erano bifolchi che se la prendevano con i lupi di fronte all’avanzare della guerra. E anche oggi, in un’Italia aumentano le disuguaglianze e l’aggressione al territorio da parte dell’uomo, il problema sarebbero i lupi e gli orsi. Apriamo gli occhi.

Mentre dilagano conflitti, la vicenda umana di Tina e la sua storia familiare s’intrecciano con i disastri causati dalla Prima guerra mondiale, regalando un messaggio pacifista. È davvero significativo ricostruire quel contesto di oltre cent’anni fa?
La Prima guerra mondiale ha coinvolto tantissime nazioni, inteso come natio, dal latino, cioè culture e popoli, non Stati. C’è poca storiografia che racconta l’impatto sulle comunità locali, anche perché molti erano illetterati. Tanti si ritrovavano su fronti che nemmeno sapevano dove si potessero trovare, tra loro i ladini di Larcionei. Ho addirittura ritrovato la storia di uno che ha combattuto la guerra con tre divise diverse, un tale Daberto. Tina attraversa questo tempo di violenza e lacerazioni, quindi ritorna al suo paese da profuga, e lo fa con l’intuito dei semplici, degli illuminati. Si chiede perché si debba per forza parteggiare per gli uni o per gli altri, che in ogni caso portano via i padri e i fratelli, e chi se ne frega delle bandiere, perché le sue bandiere sono le montagne, il cielo, i boschi, i lupi, oltre ogni concetto di patria e frontiera. Lei si riconosce in una casa comune ed è portatrice di un vero e profondo pensiero ecologico. Mi chiedo quante Tina ci siano oggi in quei luoghi di guerra, piccole Katharina che sconvolte da queste situazioni magari vorrebbero che il cielo fosse pieno di rondini o che gli alberi fiorissero con continuazione, o che tutto avesse la quiete che un bambino sogna e merita di vivere.