La vicenda della Sea Watch alimenta la tendenza a separare o a contrapporre le valutazioni di senso civico, etico e morale da quelle degli interessi materiali ed economici. Alcune posizioni – non le peggiori – riconoscono l’aspetto umanitario da salvaguardare, ma sottolineano le conseguenze negative che un atteggiamento «lassista» sui flussi migratori comporterebbe. È un po’ come quando si apprezzano idealmente le misure per una più equa distribuzione del reddito che, tuttavia, in modo più o meno strumentale, sono considerate pregiudizievoli in termini di efficienza e, «quindi», ritenute «politicamente» impraticabili. Premesso che l’affermazione di un giudizio di valore, consapevolmente o meno, non è sconnesso dagli interessi ad esso collegato, la sua affermazione contro un altro sarà comunque più facile se non comporta gravami diffusi di tipo materiale.

CON RIGUARDO a questi collegamenti, nel dibattito sulla Sea Watch si possono cogliere aspetti del declino da tempo in atto nel nostro paese, che non è solo economico, ma anche sociale e civile. Va precisato che le sue cause non sono né recenti né tutta farina del nostro sacco: l’instabilità dei mercati, la precarietà dei rapporti di lavoro, dei salari e delle condizioni di vita, il peggioramento della distribuzione del reddito sono problemi variamente diffusi nella generalità dei paesi più sviluppati.

TUTTAVIA, confrontando la situazione italiana con quella dell’Area Euro, sono evidenti le nostre specificità negative: a metà degli anni ’90 il nostro Pil pro capite era superiore di oltre il 9% mentre ora è di altrettanto inferiore; nel 2007 il nostro tasso di disoccupazione (6,1%) era inferiore di circa 1,5 punti mentre il valore attuale (10,2%) è superiore di 2,5 punti; dal 1995 al 2018, mentre nella media dell’Area Euro l’indice della produttività è cresciuto di 23 punti, il nostro è diminuito di 1 punto; la povertà è aumentata e nella classifica della distribuzione del reddito più sperequata siamo saliti ai primissimi posti; la nostra spesa per istruzione in rapporto al Pil è al penultimo posto tra i 28 paesi dell’UE. E si potrebbe continuare (rimando al Rapporto sullo stato sociale 2019, anche per l’approfondimento di alcuni punti successivi) per aiutare a capire perché anche nell’opinione pubblica l’equilibrio tra i giudizi di valore sia slittato verso un individualismo intollerante e aggressivo, a scapito del clima sociale, ma anche del benessere materiale.

IL DIBATTITO sulla Sea Watch richiama, in particolare, che tra i problemi strutturali della situazione economico-sociale italiana, uno – collocabile sia tra le cause sia tra gli effetti del suo declino – è la sua evoluzione demografica che include i risultati dei flussi migratori. Nell’ultimo trentennio, l’invecchiamento della nostra popolazione è stato particolarmente accentuato: dal 1987 al 2017, l’incidenza degli ultra 65enni sulle persone in età attiva è salita dal 20,6% al 36,3%, mentre il dato medio europeo è del 30,5%; il rapporto tra gli ultra 65enni e i giovani sotto i 15 anni è salito dal 76% al 170%, mentre quello europeo è 128%.

L’INVECCHIAMENTO della popolazione si ripercuote su quello della forza lavoro, con conseguenze negative sulla sua formazione, sulla qualità e quantità della produzione, sulla produttività e competitività del nostro sistema produttivo e sull’entità e stabilità delle retribuzioni. Il maggior peso relativo della popolazione non attiva rende anche più onerosi i trasferimenti operati dai sistemi di welfare. Queste conseguenze, a loro volta, influenzano negativamente le nascite creando una interazione negativa tra invecchiamento demografico e risultati economici.

UN EFFICACE contrasto all’invecchiamento della nostra popolazione può venire dall’immigrazione che, tuttavia, viene gestita – nell’Unione Europea e in Italia – con modalità che ne esaltano più le problematicità che le opportunità. Gli immigrati, che rappresentano circa l’8,5% della popolazione italiana, finora, non solo hanno più che compensato il complessivo calo delle nascite nel nostro paese, ma si sono concentrati nelle fasce di popolazione lasciate più scoperte dagli italiani: quella dell’età lavorativa e quella dei lavoratori meno istruiti e meno disponibili per le mansioni di più basso profilo che, tuttavia, continuano ad essere richiesti dal sistema sociale e produttivo. Particolarmente utile è stato l’incremento degli stranieri impiegati nelle attività di collaborazione domestica, assistenza e cura di anziani e ammalati, che hanno risposto ad una domanda crescente, compensando le carenze specifiche del sistema di welfare pubblico e dell’offerta dei lavoratori italiani. In Italia i collaboratori domestici sono oltre due milioni; per tre quarti sono stranieri, per lo più donne (circa il 90%), e si stima che solo il 40% siano regolarizzati.

Negli ultimi anni si è pressoché arrestato il flusso degli ingressi programmati con la concessione di permessi di soggiorno che, complessivamente (lavoratori subordinati e stagionali), sono scesi dai 238mila nel 2007 ai 31mila previsti dal decreto del gennaio 2018. L’inevitabile conseguenza è la diffusione della irregolarità dei rapporti di lavoro che tende ad estendersi anche agli italiani presenti nel settore e, più in generale, accentua il tradizionale problema delle attività sommerse.

IN ACCORDO con l’Unione europea – nella quale a tutti dovrebbe essere chiaro che l’Italia è il suo confine nel Mediterraneo – andrebbe dunque impostata una più efficace politica di gestione dei flussi di lavoratori stranieri.

INVECE, mentre a Bruxelles si ripropone la stessa inadeguatezza della politica di bilancio che alimenta gli umori di pancia antieuropei, in Italia si rafforza un approccio che, cercando di cavalcare proprio quegli umori, in primo luogo, è privo di senso civico e della coscienza storica di quanto il fenomeno migratorio coinvolga come protagonisti il passato e il presente degli italiani; in secondo luogo, non ci si rende conto che questo approccio risulta controproducente anche rispetto alle nostre necessità materiali immediate.