Il 20 novembre 1946, sulla sua rubrica quotidiana “My Day”, Eleanor Roosevelt commentava la contrarietà manifestata dalla presidente della Dar, organizzazione femminile patriottica nata alla fine dell’Ottocento che riuniva le Figlie della Rivoluzione americana, alla proposta del presidente Harry Truman di allentare per motivi umanitari alcune regole di governo dell’immigrazione negli Stati Uniti. Perché – chiedeva – tanta paura a dare aiuto a quanti, per ragioni che ritengono valide, non vogliono tornare nelle loro terre d’origine, dove potrebbero dare un contributo prezioso alla ricostruzione? Come possono, delle donne, non pensare alle conseguenze di politiche miopi su un futuro di pace?

Il caso, allora, era quello dell’ingresso di cittadini provenienti da campi profughi europei: ebrei, jugoslavi, polacchi, ucraini e altre nazionalità. Auspicando che quanti erano in condizioni di farlo rientrassero in patria, Roosevelt sosteneva l’impossibilità di chiedere agli ebrei di fare ritorno in paesi dove li aspettavano ricordi tragici e amari e dove, spesso, non sarebbero stati benvenuti. Concludeva lucidamente il “blog” giornaliero ammettendo che altri, fuggiti da paesi che nel frattempo avevano cambiato forma di governo, potevano a buon diritto preferire di non vivere sotto i nuovi regimi, per la semplice ragione che non si sarebbero sentiti liberi come lo erano prima che una dominazione straniera spazzasse via il governo che avevano sostenuto. “Non sono necessariamente fascisti – scrive – e tutti dovremmo fare il possibile per aiutarli a rifarsi una vita”.

Anni dopo, il 1° febbraio 1954, una lettrice obietta che quando Eleanor titola un pezzo “Tutti gli americani una volta erano stranieri”, dovrebbe aggiungere che “l’America non è più quella che era quando era popolata da nativi, prima che si aprissero le porte all’immigrazione”. Ora – afferma – “sta rapidamente diventando uno slum europeo”, per poi consigliarle di dedicare il tempo che le resta a insegnare “politeness” e “good manners”, a suo avviso “ormai assenti in questo grande (?) paese”. Facendo presente che i titoli non li fa il giornalista; che la stessa lettrice o ha antenati stranieri, oppure è un’indiana; e che, infine, nessuno conosce la provenienza degli indiani americani, la ex first lady osserva che se buona educazione e maniere possono variare da una cultura all’altra, una qualità ne è alla base in tutto il mondo ed è sempre la stessa: la “gentilezza”, che assieme alla dignità lei ha potuto riscontrare in poveri e ricchi, mentre casette confortevoli e pulite sono cosa all’ordine del giorno, mentre molti slum vanno sparendo. Ribatte, inoltre, che tutti dovrebbero essere fieri di quello che è un grande paese e della sua gente, compresi coloro giunti negli anni dell’immigrazione di massa, senza i quali non ci sarebbero le ferrovie che attraversano l’intero continente e le risorse naturali sarebbero rimaste inesplorate.

Fatte le debite differenze fra le realtà di oggi e gli episodi narrati, la storia si ripete. Compresa quella delle sempre più massicce migrazioni e delle loro matrici; dei pregiudizi e dei razzismi; delle ragioni politiche e dell’imperialismo che creano e abbattono regimi; delle ragioni economiche delle grandi potenze, siano esse nazioni o gruppi multinazionali, nel cui tornaconto rientra la convenienza a sfruttare la manodopera nel suo habitat di origine.

Alla luce del garbo di queste column, dispiace il perentorio e ingenuo “Non venite” in cui ha inciampato la vicepresidente Kamala Harris parlando in Guatemala in occasione del suo viaggio in America centrale.