Cala la produzione in Francia, Spagna e Gran Bretagna, ma rallenta la sua corsa anche la “locomotiva” tedesca costretta a correggere al ribasso le previsioni per il 2019. Gli istituti di statistica nazionali certificano la crisi dell’industria europea conclamata da numeri incontrovertibili.

A Parigi l’Insee restituisce il crollo dell’indice dello scorso novembre (meno 1,3% rispetto al 2017) smentendo le rosee previsioni del governo Macron che si attendeva una performance invariata. A Madrid la produzione industriale fa registrare cifre perfino peggiori: meno 2,6% è il preoccupante risultato delle fabbriche iberiche degli ultimi dodici mesi. Mentre a Londra la corsa verso la Brexit corrisponde all’ennesimo passo indietro (meno 0,4%) di ciò che resta dell’industria smantellata in nome della finanza.

Pessime notizie, soprattutto a Berlino, dove ieri sono rimbalzati i dati economici a partire da quelli locali. La recessione generale è parallela alla crisi tedesca: meno 1,9% è la cifra del made in Germany industriale, che non tira più come prima. Dalle difficoltà nell’export di macchinari alle esauste possibilità per lo Stato di supportare il settore con finanziamenti e tassazione ad hoc. «Il periodo delle “vacche grasse” è finito» è l’avvertimento agli addetti del settore del vice-cancelliere Spd Olaf Scholz, ministro delle finanze consapevole del tramonto del ventennio di crescita.

L’Europa piange e Berlino certo non ride. Tuttavia il numero due del governo Merkel è consapevole che la Germania poggia su basi (e altezze) economiche ben differenti dai partner fuori e dentro l’Eurozona. Il rapporto dell’Agenzia tedesca per il Lavoro diffuso il 4 gennaio squaderna le tabelle con 193mila senza lavoro in meno nell’ultimo anno, ovvero il record di calo della disoccupazione dai tempi della Riunificazione. Era a quota 5,7% due anni fa, è scesa fino al 5,2% nel 2018 riducendo a “soli” 2,3 milioni la platea di tedeschi senza un impiego.

Si aggiunge alla “cassaforte” dell’avanzo commerciale (il famigerato “surplus” che Bruxelles può sorvegliare ma non sanzionare) mai così più colma di denaro: corretto a fine novembre, il dato ufficiale adesso risulta pari a 19 miliardi di euro, oltre tre miliardi in più della previsione iniziale.

Con questi fondamentali a Berlino la frenata industriale è politicamente più governabile che a Parigi e Roma, anche se dal punto di vista economico ci sarà comunque il rimbalzo della crisi che investe i principali acquirenti della produzione locale.

Rimane, in parallelo, la preoccupazione per le reali dimensioni della recessione già arrivata. Fino a ieri il governo federale non aveva compreso la vera portata della flessione dell’industria, tantomeno che avrebbe investito anche la Germania. La previsione iniziale della produzione nazionale corrispondeva a un calo dello 0,3% mentre l’istituto di studi economici CeSifo di Monaco ha dovuto tagliare la previsione della crescita fino all’1,1% del Pil limandolo di ben 0,8 punti. Non sono i numeri della Bundesbank, che sconta solo mezzo punto e fissa la stima al 2%, ma è la prova che lo stop industriale si è acceso anche nel più importante Paese dell’Ue, in prima linea nella guerra commerciale dichiarata dagli Usa (dove Mercedes, Bmw e Vw incassano fatturati da capogiro) come trincerato nella tenuta della moneta unica attaccata su tutti i fronti.

Così, per il rilancio dei grandi konzern industriali in crisi, la Germania guarda alla Cina anche se l’attenzione economica rimane sul Regno Unito nella nuova veste sovranista. A fianco delle mosse per sottrarre a Theresa May la City finanziaria, il governo Merkel osserva con manicale attenzione la crescita del vicino britannico che rimane inchiodata allo 0,2%. Con la manifattura in calo da cinque mesi consecutivi, come non accadeva dai tempi del premier Gordon Brown.