Lo spettro che si aggira per l’Algeria non è più, o non è tanto, quello degli anni 90, quando si calcola ci furono 200mila vittime, ma quello che avvenne prima, nel 1988, quando i manifestanti per la giustizia e la democrazia (di sinistra) furono torturati e massacrati, lasciando che gli islamisti cavalcassero opportunisticamente una rivolta che non avevano né scatenato né promosso. Il seguito furono i contestati successi elettorali del Fronte islamico di salvezza (Fis), poi interrotti con l’intervento dell’esercito, e lo scontro con i gruppi islamici armati (Gia) che insanguinarono l’Algeria per un decennio in cui la propaganda, diffusa anche e soprattutto in occidente, fu costruita intorno a qui tue qui che oggi viene declinata in qui tuera qui (chi ucciderà chi).

La vittima di quella guerra fu la popolazione civile, che non fu mai risarcita, nemmeno moralmente, per i crimini subiti. La mancanza di giustizia e di una approfondita analisi su quello che era successo, sui responsabili dei massacri, in nome della «riconciliazione nazionale», ha portato all’amnistia per i militanti dei gruppi islamici armati che abbandonavano le armi e a un’autoassoluzione dell’esercito per gli abusi di potere.

Sono stati i giovani, la generazione che non aveva vissuto il «decennio nero» e aveva conosciuto solo l’ex presidente Bouteflika, a spronare gli algerini a scendere in piazza contro il regime e a esorcizzare i timori di un ritorno ai bagni di sangue del passato. Per farlo, il movimento (hirak) nato nel febbraio del 2019 contro la quinta candidatura di Bouteflika (malato da anni e che alla fine si è ritirato) ha giocato la carta della non violenza. Una carta vincente insieme allo slogan dello «stato di diritto e non militare» che ha portato nelle piazze algerine milioni di persone per due anni ogni venerdì e gli studenti il martedì.

 

Algeri, 19 marzo 2021 (foto Ap)

 

L’interruzione, fondata e ragionevole, delle manifestazioni a causa del Covid per evitare pandemie ha però dato il tempo al regime di tentare la decapitazione dell’hirak – con arresti e condanne – e agli islamisti di cercare di prendere la testa della protesta. Il movimento di massa è sempre stato trasversale e fin dall’inizio aveva al suo interno delle frange islamiste che però non avevano osato o potuto lanciare i loro slogan per mancanza di spazio politico.

La mancanza di una leadership e di una organizzazione del movimento, forse per un eccesso di democrazia interna, ha facilitato il compito degli islamisti. Che con la ripresa delle manifestazioni, da febbraio, sono apparsi con il loro armamentario per prendere la testa dei cortei e rendere visibile la loro presenza in modo anche superiore alle loro forze, con i loro kamis e slogan. Si sono rivisti in piazza personaggi del passato, in contrasto generazionale con la maggioranza dei militanti dell’hirak, giovani, laici e moderni.

 

Algeri, 2 aprile, 111mo venerdì di protesta del movimento hirak (foto Ap)

 

Tornano alla mente le orde di islamisti che negli anni 90 sfilavano con fare da commandos per le strade di Algeri. Oggi l’obiettivo del Fis residuale non è tanto di integrare l’hirak, ma di arruolare i manifestanti nelle loro fila ormai sguarnite. Perché è chiaro che l’obiettivo, ora come allora, non è la democrazia ma uno stato islamico e sicuramente gli integralisti islamici non condividono la pratica della non-violenza. Per ora praticano la strategia dell’«entrismo» già provata nel 1991 senza successo: prendere il potere attraverso le istituzioni democratiche. E se fallisce si cambia strategia. Ma ancora oggi i democratici, sicuramente la stragrande maggioranza dell’hirak, rischiano di fallire i propri obiettivi accettando i ricatti degli islamisti in nome della democrazia.

A denunciare l’ambiguità, se così si può chiamare, è stato l’atteggiamento nei confronti delle donne, parte importante dell’hirak, soprattutto in occasione delle celebrazioni dell’8 marzo, quando un gruppo di donne velate sono intervenute contro la richiesta di abrogazione del codice della famiglia, che in alcuni articoli recepisce i dettami della sharia. Una lotta storica delle donne algerine.

 

Algeri, 8 marzo 2021 (foto Ap)

 

Lo sponsor principale degli islamisti è il partito Rachad, con sede a Londra e non legalizzato in Algeria, che ha un’ampia e capillare diffusione sui social. Guida di Rachad, fondato dall’ex diplomatico algerino Mohamed Larbi Zitout, è Mourad Dhina, già responsabile del Fis, che vive in Svizzera. Anche questa direzione esterna, come allora da Londra, riporta a eventi del passato, quando i bollettini del Gia venivano pubblicati in Gran Bretagna.

Riuscirà la manovra degli islamisti? Sicuramente inquinando il movimento per il cambiamento del sistema e l’instaurazione della democrazia favorisce il regime che con il presidente Tebboune, dopo averlo «apprezzato», lo vuole smantellare in vista delle elezioni indette per il 12 giugno. Finirà come nel 1988 quando gli islamisti diventarono gli interlocutori del regime? Speriamo proprio di no.