Di poche cose siamo sicuri. La prima è che siamo un paese commissariato, un paese che ha bisogno di «governi del presidente». Ogni volta che la situazione economica incontra momenti drammatici e di svolta, arriva l’uomo solo al comando, meglio se uomo e uomo dei poteri finanziari. E la seconda è che questa pioggia di miliardi di euro del Recovery Fund, ha risvegliato forti, variegati, trasversali appetiti. A cominciare da quelli confindustriali, passando per quelli mediatici che, insieme, e fin dall’inizio avendo come coagulo politico Renzi e Berlusconi, hanno avversato la maggioranza di un centrosinistra anomalo presieduto da Conte.

Tuttavia la campagna contro il governo ha potuto fare breccia non solo grazie al lavoro ai fianchi dello sfascia carrozze toscano, ma anche a causa della crisi dei partiti, diciamo pure del loro spappolamento, che reclamerebbe un generale mea culpa, considerando il grave colpo inferto all’autorevolezza della politica nella già debole considerazione dei cittadini. Adesso è probabilmente troppo tardi per cercare di rimettere insieme i cocci ma ognuno dovrebbe quanto meno provare a fare autocritica. In primo luogo il Pd e in particolare Zingaretti che non è mai stato troppo convinto di poter fare un governo con i grillini. E più volte, in dibattiti pubblici, dichiarava che mai si sarebbe alleato con il M5S.

La forza degli eventi – e soprattutto l’emergenza pandemica – ha poi messo il silenziatore ai dubbi, alle incertezze. Per parecchi mesi. Ma il puzzle delle correnti, in primis quella dei renziani (un correntone nel partito) ha iniziato a farsi largo, anche a causa delle indecisioni, delle sbavature, che incrinavano l’azione di governo. Per dire: mentre il principale alleato sosteneva che il Mes neppure doveva essere menzionato, esponenti piddini invece insistevano sul ricorso a questo strumento di finanziamento – indebitante – della Sanità. Offrendo così il fianco alle insistenze, al pressing ricattatorio e ultimativo di Italia Viva che fino a un secondo prima della rottura, nell’ultimo gioco da tavolo, chiedeva il ricorso al Mes per far saltare i nervi ai due partiti maggiori. Zingaretti si è fidato di Renzi, anche grazie alle valutazioni sbagliate di Goffredo Bettini sulle reali intenzioni dell’ex segretario Pd.

D’altra parte anche il M5S sventolava le proprie bandiere irrinunciabili. Senza rendersi conto che alcuni argomenti sensibili andavano affrontati in modo diverso. Prendiamo la scuola: per mesi la discussione si è concentrata sulla sicurezza interna agli istituti – le polemiche e i soldi spesi per i banchi a rotelle – senza capire che il problema Covid e contagi nel mondo scolastico era strettamente legato alla vita sociale, agli assembramenti del prima e del dopo scuola, per non parlare dei trasporti pubblici. D’altra parte l’assenza di un vero capo politico dentro i 5S ha reso più difficoltosa la gestione delle forze interne al Movimento, tirate per la manica dai dissenzienti, come Di Battista, oppure rimaste sotto traccia fino ai voti di fiducia dei giorni scorsi, e all’uscita di Emilio Carelli, due giorni fa, al grido «a destra, a destra».

Il più fedele e corretto alleato è stato il piccolo gruppo parlamentare di Liberi&Uguali: ha messo la propria immagine nelle mani del ministro Speranza, che ha assolto il suo compito in uno dei momenti più difficili e drammatici della storia repubblicana, prendendo le misure necessarie contro la Pandemia, anche se non sempre nei tempi giusti, dovendo mediare tra le diverse spinte delle Regioni, che hanno marciato spesso in ordine sparso. E di sicuro LeU non ha mai posto le questioni politiche in modo ricattatorio e ultimativo, come ha fatto il distruttore di Rignano. Per questo Loredana De Petris chiama oggi «gli alleati a una posizione comune rispetto al governo Draghi». Ma può forse bastare a se stessa questa sinistra istituzionale e autoreferenziale?

E Conte? Il presidente del Consiglio ha conquistato consensi, obiettivo niente affatto semplice per un presidente del Consiglio di due momenti diversi, di due governi diversi. Ci è riuscito, facendo crescere la sua popolarità nell’opinione pubblica, grazie anche, se non principalmente, al risultato dei 209 miliardi del Next Generation Eu. Salvo, nell’ultimo periodo declinare verso una carenza di energia politica che l’Europa chiedeva sul Recovery Fund (offrendo il fianco sui limiti evidenti della task-force).

Ora la partita è un’altra, soprattutto politica. Nonostante le parole del presidente Mattarella, e quelle del neo incaricato Mario Draghi. Perché Supermario sa bene che non potrà far fuori con un colpo di spugna quel che è stato fatto dal governo Conte e dai suoi ministri. Draghi gli offrirà un ruolo di primo piano nel suo governo? Se l’ex dominus della Bce vuole l’appoggio dei partiti, non può non concedere qualcosa ad ogni forza politica. Sarebbe impensabile per il Pd sostenere Draghi senza avere una sua rappresentanza nel nuovo Ministero, e non può permettersi di uscire dalla crisi di governo con il cerino in mano. Per i 5S invece i contrasti interni sembrano destinati a prendere il sopravvento, e il loro futuro è pieno di incognite. Mentre LeU, in cambio della conferma di Speranza, potrebbe sostenere Draghi senza ritirarsi sull’Aventino.

E le destre? E le forze moderate? Se sembra chiaro che cosa faranno Berlusconi, Toti, Bonino, appare meno scontato l’appoggio della Lega, e ancor meno quello di Fratelli d’Italia. Fa più comodo insistere sul ricorso alle urne perché sanno che un governo a guida Draghi può durare a lungo e arrivare fino all’elezione del futuro presidente della Repubblica che, visti i numeri attuali del Parlamento, non potrebbe essere di centrodestra.

La partita dell’ex presidente della Bce non è semplice come appare a prima vista (la Borsa esulta). E solo nelle prossime ore capiremo meglio se potrà essere giocata avendo i giusti numeri in campo. Quanto Italia Viva e a Renzi, portano sulle spalle il marchio dell’inaffidabilità, della irresponsabilità. Credo che gli resterà a lungo.