Siete arrivati da due giorni e non siete ancora andati al mare, dice Costantino Saru al figlio Mario e alla sua compagna tedesca Grete. Lui, ex pastore interpretato da Gavino Ledda nel nuovo film di Salvatore Mereu – Assandira, presentato fuori concorso e tratto dal romanzo omonimo di Giulio Angioni – appartiene a quella generazione che al mare non andava, nonostante fosse dietro l’angolo. E che ha lavorato duramente anche perché i figli facessero altro, come Mario che vive in Germania e quando torna in Sardegna deve comportarsi come i turisti e non come i padri: andare al mare. Mario e Grete però hanno un sogno: fare del vecchio ovile di famiglia un agriturismo. Cercano di convincere il recalcitrante Costantino ad aiutarli, a entrare in un progetto che offrirà una rappresentazione a uso e consumo dei vacanzieri della «tradizione» sarda. Cartoline per turisti di un mondo immaginato nei suoi cliché – le pecore, gli abiti tradizionali, i maialini arrosto – e ridotto a grottesca messinscena, alla quale Costantino finisce per cedere. Ma la breve vita dell’agriturismo è un racconto in flashback: il film di Mereu si apre sulle sue macerie, sui cadaveri degli animali e dello stesso Mario uccisi da un incendio doloso, da fiamme divampate per coprire un senso di colpa e vergogna.

Perché ha deciso di lavorare sul libro di Angioni?

Quando l’ho letto sentivo la stessa indignazione di Saru nei confronti di un modo degenerato di vivere le vacanze, del proliferare di agriturismi dove della gente senza alcun rapporto con la tradizione si mette al servizio – come in un reality show – di persone che vengono in Sardegna a vedere cose false. Per esempio le uscite dei mamuthones: per me erano sacre, poi si è cominciato a vederle nei villaggi turistici. Anche in questo siamo diventati cittadini del mondo come tutti gli altri: il libro offre una prospettiva sul difficile approdo della nostra terra verso la modernità. Nel film c’è anche un riferimento ai banditi: in certi agriturismi di Orgosolo si organizzavano incontri col «famoso bandito» del luogo per dare ai turisti l’ebbrezza di averlo incontrato. In questo è stato profetico Ennio Flaiano, che negli anni 60 ha scritto I protagonisti, in cui dei vacanzieri in Costa Smeralda decidono di partire verso la Sardegna dell’interno per incontrare il famoso bandito Tandeddu e farsi le fotografie con lui – come se fosse una giraffa in Africa. Di Assandira poi mi piaceva il conflitto sotterraneo fra padre e figlio, e scrivendo la sceneggiatura ho scoperto qualcosa d’istintuale e inconscio che mi legava alla storia: in fondo si sceglie un libro perché dà modo di raccontare se stessi e il mondo che si conosce, in cui si è cresciuti. Nel testo si sente molto l’indagine antropologica di Angioni, io sono partito da lì ma poi l’interesse nei confronti della storia familiare ha prevalso su tutto. C’era poi da ricostruire il paese immaginario che torna in tutti i libri di Angioni, Fraus, che assomiglia a Guasila – dove è nato – ma cambia a seconda del racconto. Noi lo abbiamo ricreato mettendo insieme svariati paesi della piana intorno a Cagliari. Ma non avevo il desiderio di raccontare il paesaggio, di fare delle «cartoline»: il film è fatto di tanti piani ravvicinati proprio perché sceglie di stare addosso ai personaggi e non raccontare il luogo.

Come ha scelto Gavino Ledda?

Per un certo periodo ho pensato di scritturare un signore che rispondeva esattamente al ritratto che Angioni fa di Costantino nel libro, ma il rischio era di sconfinare nella caricatura. L’altra immagine che mi portavo dietro era quella di Ledda: una sua foto sotto una sughera, in canottiera. La preoccupazione era che vedendo Ledda gli spettatori pensassero a lui, e non a Costantino. Ma ho comunque deciso di fare questa scommessa, e nel film c’è un chiaro omaggio a lui che non viene dal libro, quando la sua voce fuori campo dice: «Da me neanche da bambino si giocava a fare il pastore, lo so io che mi hanno portato via da scuola».

Dal film emerge infatti che la tradizione è dolorosa, mentre queste ricreazioni posticce girano intorno al mito del «buon selvaggio».

Il dolore di Costantino – oltre che dalla spoliazione progressiva della sua identità – nasce anche dal fatto che c’è una adesione quasi monastica a quello stile di vita, che lui riteneva essere l’unico, sacro, e che non può diventare una cosa triviale in nome di un guadagno facile. Nel libro però Costantino è un personaggio molto più in disarmo di quanto lo sia nel film, dove Grete in qualche modo torna a farlo vivere quando a lui restavano solo i maiali e la visita del figlio una volta all’anno.