«A distanza di otto, nove mesi, siamo a 30 casi di suicidio. Quest’estate in poco più di due settimane ne abbiamo avuti 15, di cui 5 solo a Filottrano: persone non monitorate dalla nostra rete, in contesti nuovi. Ne abbiamo riacchiappato qualcuno per un soffio». Massimo Mari, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Area Vasta 2 di Jesi, si passa nervoso la mano tra i capelli, il volto impastato dietro la stanchezza. «Se mi mancano 19 infermieri, 19 educatori, 11 psicologi e 7 psichiatri», Come lavori. «Questi sono numeri per la gestione minima delle urgenze, servirebbero…». Il discorso cade. Il tono è seccato, come quello di qualcuno che ha passato ore a gridare al telefono per sollecitare un’emergenza, lo sguardo appannato dallo stato delle cose. La scrivania dell’ufficio è riempita di appunti e libri, ordinata nel suo essere una cronologica narrazione lavorativa degli ultimi mesi. Ignorato, le richieste d’aiuto non smettono d’arrivare: c’è chi non dorme la notte, chi è bloccato dall’ansia o dalla paura d’incontrare la morte all’angolo della strada.

ECCO L’OMBRA DEL COVID, è la malattia mentale. In Italia quasi il 20% della popolazione soffre di disagi mentali, con l’assistenza fornita dal Ssn che copre a malapena il 25% dei bisogni psicologici previsti dai Livelli essenziali di assistenza, e un budget di spesa media nazionale del 3,6% rispetto le risorse a disposizione. «Le Marche ne spendono il 2,1%, la legge ne prevede almeno il doppio – ammette Mari – Un tempo eravamo la penultima regione, adesso siamo colati a picco». Fuori le nuvole accerchiano l’ospedale Murri, chiudendo la luce dentro un’ombra nera. La notte fa il resto.

Quella della salute mentale è una questione scomoda, istintivamente fastidiosa quando nominata. La discussione con se stessi è un confronto da cui si tende a difendersi, scansare, ma che diluisce nel culturale, sociale e nel politico dove ne fuggono razionalità e afferrabilità, e la paura allontana: questo è lo stigma. Quarantadue anni fa con la Legge n.180/1978, detta anche Legge Basaglia, in Italia venivano chiusi i manicomi, luoghi istituiti per annientare l’individuo. Fu chiamata «la rottura»: si spinse per la territorialità, la vicinanza umana e la condivisione – basi della psicoterapia – a stravolgere le pratiche conosciute. «Oggi c’è una dimensione chimica del manicomio, una progressiva ospedalizzazione del sofferente: più pazienti hai, più farmaci prescrivi». Diversamente, la costruzione di un’adeguata organizzazione e presenza dei Centri di Salute Mentale è stata definanziata nel tempo in gran parte del territorio italiano, impedendo l’efficenza dello stesso principio basagliano. Il peso rivoluzionario della riforma si è orientato verso la terapia biologica, prendendo il sopravvento spinto dalla facilità del gesto. Il senso comune della malattia mentale è tornato a essere quello di un pregiudizio segregante, limitativo e incurabile: una questione privata.

UN EVENTO CATASTROFICO non colpisce il singolo, ma la comunità: così la pandemia. L’elaborazione dei fatti chiede tempo alla mente, ed è conosciuta anche come «disturbo post-traumatico da stress». L’Aquila dà un pugno allo stomaco quando arrivi. La bellezza che arricchiva la città ancora avvolge l’aria, ma è il trauma del terremoto quello che leggi con gli occhi: il vento muove i fantasmi delle impalcature. «Il manicomio è stato chiuso, ma resta nella testa della gente», ammonisce serafico il dott. Sirolli, ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale aquilano, «lo diciamo non per slogan, ma per dire che è manicomio la comunità terapeutica che ti indica a che ora fare la doccia, pranzare, fare la passeggiata o prendere i farmaci».

Alessandro ed Emanuele Sirolli li incontro sulle macerie del vecchio ospedale psichiatrico, oggi carcassa storica che guarda la città, lì dove nacque «180 amici», un’associazione a tutela della salute mentale dei cittadini voluta dalla spinta di un gruppo di operatori, locali e familiari sensibili al tema. «La nostra è un’idea di città che cura, di comunità, implementiamo i servizi per favorire la cosa». Curioso, dico indicando alle spalle lo scheletro urbano, proprio in questa terra dimenticata dalla misericordia. «È terminata una generazione, quella di coloro che si è impegnata a chiudere i manicomi e declinare la cura nel territorio», dice Alessandro mostrando il piccolo museo allestito con i reperti dell’ex ospedale, i letti con le sbarre e le foto dei direttori che furono. «La nuova non ha queste esperienze, è formata in ambulatorio, dentro i servizi psichiatrici di diagnosi e cura che per l’80-90% sono strutture squisitamente farmacologiche e contenitive».

COS’HA SIGNIFICATO la non completa applicazione della Legge in campo nazionale? Servizi oberati di lavoro, affollamento di pazienti e diffusione della concezione organicista della psichiatria. La questione dei finanziamenti esiste, spiega Emanuele, ma il vero problema è il «loro utilizzo». «Dobbiamo ragionare su come i Dipartimenti non sono quelli che dovevano essere, cioè un sistema organizzato di servizi che mette al centro la persona e che vive per progettare con lei una ripresa da una situazione di sofferenza». Ad aver cavalcato l’onda la rottura moderna del metodo, quella conflittualità naturale alla base della salute mentale, fatta di pratiche e formazioni differenti e alimentata dalla scarsa presenza di risposta nel territorio. «C’è una malattia, quindi i sintomi, una sindrome e una terapia farmacologica» , ragionano con freddezza, nessuna «città che cura» là fuori.

Il sole perentorio d’agosto entra nello studio, la polvere si solleva quando arrivano i ragazzi del centro. Scosto la mascherina, sorrido, ci presentiamo: noi qui gestiamo una radio, Radio Stella 180, «passa a trovarci giovedì», mi fa uno di loro. «Parte del problema è nato nel ’94, quando hanno slegato la cura del sanitario dalla cura del sociale. Prima c’erano unità locali socio-sanitarie, scorporandole non hanno previsto che queste si parlassero: il comune lavora nel sociale e il sanitario nella sanità. Uno svincolo che ha permesso di separare i finanziamenti, con il peso economico che ha riempito più le tasche dei secondi che dei primi. Così il giorno in cui la salute mentale ha assunto il valore di un bene ci siamo offerti al contagio, ed è questo forse il pegno da pagare. Si ragiona sulle rovine della malattia, perché a L’Aquila non riesci a non associare ai detriti quello che ti circonda, anche nelle cose nuove – le vetrine pulite nel corso principale, il bianco che attraversa le strade – c’è qualcosa di frantumato. «Il vero cambiamento potrà avvenire solo quando il sociale irromperà nel sanitario, cambiandone i paradigmi».

E Alessandro, citando il rivoluzionario Rotelli, sa che c’è molto di più da fare – perché non si sa più come intercettare il malessere- a filtrare il disagio, a dialogare per un lavoro di prevenzione. «Tu puoi operare su questo solo se lavori sul sociale, non sul sanitario, altrimenti fai soltanto intervento precoce». A Collemaggio un animale azzurro di quattro metri di statura, con le gambe irte e di legno sottile, si libera alla vista. Marco Cavallo «i giovani non sanno chi è», ma fu simbolo della lotta a favore della chiusura dei manicomi e metafora dei pazienti liberi e degni d’indossare i panni di cittadini. Bisogna ripartire da zero dice Emanuele, cercare di arrivare a un ragionamento comune, «non è un lavoro complicato». Le montagne chiudono la luce sul colle, portano con sé del vento fresco. Arriva la sera, nel silenzio si sentono le ossa degli edifici che scricchiolano doloranti.

LA RETE DEI SERVIZI coordinata dal Dipartimento di Napoli Centro si dirama tra i racconti dei quartieri. Antonio quando parla va veloce, velocissimo, come se le parole potessero scappare prima della fine. «Devo, devo, devo», le voci gli dicono del cibo avvelenato, l’acqua cattiva e la notte troppo lunga per illudere al risveglio. Allora mi spiega che il farmaco in fase iniziale è fondamentale per abbattere queste voci, che però «tu poi sei tramortito», è come se ti passasse un camion addosso e dovessi rialzarti. «Quanti mesi stai in ospedale?».

VIA DEI TRIBUNALI RIMBOMBA di pettegolezzi, una fiumana di esistenza che condivide l’incertezza dei tempi: De Luca manda l’esercito, De Magistris vuole tutto aperto, i soldi arrivano sempre più risicati a fine mese. «È asciuto pazzo ’o patrone – urla qualcuno – svende tutto a metà prezzo». Antonio è ricaduto un giorno – tentenna un po’ quando lo dice -, un passaggio di malessere «transitorio»: «Ci troviamo di fronte a casi di momentaneo scombussolamento acuto, le strutture deputate non sono del tutto preparate ai bisogni emergenti«. E che la riabilitazione sociale, il passaggio da un ambiente protetto a un luogo esterno, deve avvenire in modo graduale.

«Ti prendo con mano e a seconda del tuo stato, e del tuo stadio nella malattia, ti presento delle soluzioni idonee per quell’uscita verso l’inclusione piena e funzionale», dice. Solo che non c’è allo stato attuale questo processo, e quando Antonio fa «Mai mistificare il farmaco» impugna l’aria, perché la fase acuta è dolorosa, claustrofobica, ma necessaria per passare alla successiva, e che pure ci si ferma solo alla prima. Per dare un’idea di cos’è la malattia mentale: nell’inserimento lavorativo «preferiscono l’invalidità fisica a quella psichica», perché la persona davanti non riconosce una condizione che spaventa, pensa sia difficile da gestire, un costo ulteriore. Così Antonio capovolge i ruoli, perché «l’istinto arriva per salvarti», e da facilitatore sociale costruisce progetti personalizzati volti a far dialogare i due contesti. Ma è un aspetto carente su cui è necessario fare un po’ di scelte, «una riflessione politica, un upgrade del sistema di cura», perché manca, anche questo. Esiste un concetto più ampio di guarigione che resta nell’ambito di chi ci lavora: non si condivide ciò che non si vede, ecco la colpa della malattia mentale.

«LA PRIMA COSA CHE TI TAGLIA è la creatività», dice Bianca. Ha le mani delicate e un gesto materno quando si muove. «L’Aquilone» è una struttura organizzata tra laboratori di legatoria, riciclo e ceramica che si trova a Milano, lì dove iniziano a moltiplicarsi i primi sputi di periferia. Fabio, Michele, un ragazzo che si mastica il nome, e Ciro passano a presentarsi, mentre Bianca, che dirige, aiuta a sparecchiare le ultime cose dai tavoli. L’idea alla base di tutte le attività è quella di recuperare oggetti che andrebbero perduti, un po’ quello che accade alle vite dei singoli pazienti. «Tra noi normali e loro è solo un problema di quantità, non di qualità». La cura va stimolata attraverso lo strumento della creatività, perché l’arte riabilita e ti riporta a un senso di appartenenza col territorio, ma che pure servirebbe una cultura psicologica più diffusa. Entra una luce pacifica che spolvera tutte le cose costruite nel tempo, le rughe dell’impegno, o quelle di chi ha perso qualche anno dietro chiacchiere in testa. Pietro oggi non parla, come ieri e pure il giorno prima. «Quanto fa una quantità?», chiedo a Bianca, un ciuffo le scivola sullo sguardo. Sorride. Quando la signora Rosaria mi vede viene subito incontro per chiedere «Dottoressa, dottoressa, lei sa quando verrà mio marito?», trema di spasmi.

«LA GABBIANELLA» INVECE è una struttura residenziale a scopo riabilitativo infilata nel quartiere di Scampia, riparata dagli occhi indiscreti della strada principale, per ospiti d’età diversa. «Dottoressa?», chiama Rosaria. È di una fragilità tale che quando metto distanza tra me e lei penso di farle un torto, ma freme da circa un anno, da quando qualcosa è successo in casa – «Una lite forse, c’era di mezzo la polizia che seguiva la famiglia» -, e quindi continua a scuotere il corpo gracile e farsi più piccola davanti lo sguardo dei presenti. «Dottoressa, mi faccia una foto», Rosaria è convinta che così la sua famiglia verrà a cercarla, ma nessuno viene a cercarla da 365 giorni. Come descrivi la sensazione che arriva da un grumo di dolore a qualcuno? Perché il problema della salute mentale non è quello che tante volte si vede, ma quello che funziona di più, e che non nasce nei luoghi deputati alla cura, ma in quelli che abitiamo. Azzurro è il colore delle pareti, Gennaro siede e gioca a carte, Maria guarda la televisione, delle ciabatte rosse sono riposte accanto a un letto. Rosaria, salutandomi: «Dottoressa», quando verrà il marito?

Se la malattia mentale non si vede, tanto vale ascoltarla. Quando passi davanti le Vele cerchi di scorgere qualche romanzo televisivo, un’espressione conosciuta del territorio, necessaria a comprendere. Noi vedremo gli effetti psicologici della pandemia tra mesi, anni.