La scenografia è ineccepibile: dal tetto del Hotel Cipriani la vista spazza a 360 gradi su una Los Angeles tersa e ventosa in una soleggiata vigilia di Oscar. Sulla terrazza Gianfranco Rosi si sottopone al rito delle fotografie: questo incontro con la stampa italiana è solo una delle tappe nella marcia forzata che è la campagna per il massimo premio del cinema. Per cercare di sospingere Fuocoammare oltre il traguardo, Rosi è a Hollywood con la produttrice Donatella Palermo, Del Brocco, delegato di Rai Cinema e Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che appare nel film, ancorandone il baricentro «morale».

In realtà  la campagna dura da molte settimane con gli obbligatori tour promozionali  a Los Angeles e New York, innanzitutto per l’uscita nelle sale americane (ad ottobre con distribuzione della Kino Lorber). Alle critiche, qui  davvero universalmente positive (sull’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes, il film gode dell’invidiabile «punteggio» di 93%) è seguita la nomination.

Ad un anno giusto dall’orso d’oro di Berlino, dopo cinque mesi in sala per un botteghino americano di $1milione, il film è alle ultime battute della sua prestigiosa parabola. Mercoledì nell’auditorium dell’Academy, la delegazione ha raccolto gli applausi al simposio dedicato ai documentari candidati. Di questi, quattro, su dieci (5 lungometraggi ed altrettanti corti), si legano al tema dell’immigrazione ed alle politiche sui flussi migratori sottostanti all’attuale ascesa dei nazional-populismi su entrambe le sponde dell’Atlantico. Non sfugge insomma che Fuocoammare  atterra qui nelle prime convulse settimane del regime xenofobo di Trump. Appena sotto la superficie di quella placida distesa punteggiata di palme che si scorge dalle finestre dell’albergo sono iniziate le retate e le espulsioni sommarie, le avvisaglie di quello che promette di essere un periodo cupo, perfino rispetto altre sbandate neofasciste americane: l’internamento dei giapponesi, l’interdizione dei cinesi, la caccia alle streghe maccartiste.

«Il cinema è davvero un arma che arriva forte» spiega Bartolo, qui a 10000 km dalla sua isola ma a due passi da un confine dove si replicano i le stesse tragedie. «L’arte e il cinema sono dalla nostra parte non da quella dell’America di Trump o dell’Italia di Salvini».

«Dopo le proiezioni americane – aggiunge  Rosi – abbiamo trovato che spesso ci chiedono: ‘io cosa posso fare?’ E se ci sono ogni volta 10, 20 persone che fanno questa domanda significa che hanno colto la metafora di quella scena del film in cui la motovedetta ripete: ‘what’s your position?’. Spero che il film imponga  di chiedersi: ‘quale è  la mia posizione rispetto a questa tragedia?».

La concorrenza più dura sarà OJ: Made in America  l’epico racconto (7 ore e passa di durata) di una vicenda pop-giudiziaria, quella  di OJ Simpson, che continua ad ossessionare il pubblico americano. E qualche opportunità la potrebbe averla anche I Am not Your Negro il ritratto di James Baldwin girato da Raoul Peck, ex ministro della cultura haitiano. Non è detta l’ultima parola  che domani passa ai votanti dell’Academy. È un luogo comune, ma non toglie che sia vero: essere qui con questo film è già un traguardo. Quest’anno forse più del solito.

Errata corrige del 27 febbraio 2017

L’articolo di Luca Celada pubblicato sul manifesto in edicola il 25 febbraio, a pagina 13, dedicato all’incontro con Gianfranco Rosi, è stato titolato con una frase attribuita al regista di «Fuocoammare» (Rosi: «I miei migranti nell’America del regime xenofobo di Trump»), ma da lui mai pronunciata.

Ce ne scusiamo con Rosi, con l’autore e con i lettori.