Mentre Ready Player Number One continua a macinare biglietti nei multiplex di tutto il mondo, gli anni ottanta/novanta furoreggiano anche sul piccolo schermo. Dopo i ventidue milioni di spettatori che hanno guardato l’intervista di 60 Minutes con la pornostar Stormy Daniels, la «vecchia» televisione via network porta a casa un altro grande successo. Quindici milioni di americani si sono infatti «sintonizzati» (se il verbo si può ancora usare) su ABC, il 27 marzo scorso, per il ritorno di Roseanne, geniale sitcom sulle avventure di una famiglia blue collar dell’Illinois, andata in onda dal 18 ottobre 1988 al 20 maggio 1997, e serie più gettonata del biennio 1988-89.

 

Trent’anni dopo, il salotto dei Conners è rimasto lo stesso – il divano marrone (in prospettiva frontale) intorno a cui si consumano la maggior parte delle tragicommedie di famiglia, il battibecco tra coniugi e figli in cui ognuno parla sull’altro, le risate preregistrate e il jingle che anticipa il ritorno, dopo l’interruzione pubblicitaria. Il passare degli anni mitigato da «antidoti» che i Conners non potrebbero mai permettersi, Roseanne Barr e John Goodman tornano nei panni di Roseanne e Dan. È inalterato il loro reciproco, allegro, appetito erotico, un ingrediente doc della serie, che copriva di vergogna i tre figli, oggi cresciuti – D.J. (Michael Fishman), Becky (Alicia Goranson) e Darlene (Sarah Gilbert, che nel reboot ha il titolo di produttore esecutivo, detenuto nell’originale da Barr). Inalterato anche il leit motiv della sitcom, tutta incentrata sulle traversie che una famiglia della classe lavoratrice è costretta ad attraversare per sbarcare il lunario e stare al passo con i tempi di una cultura che cambia. Perché Roseanne, con quel suo ben dosato debole per i «bassi istinti» era già una denuncia del politically correct prima che diventasse una sindrome.

 

Bianchi, poveri e dal cuore operaio del paese, i Conners sembrano il casus studi ideale da recuperare nell’America di Trump. Il campione dell’elettorato dimenticato che ci ha dato questo presidente e – in modo più teorico – la risposta della prima serata della tv generalista allo spezzettamento etnico, culturale, poetico e dell’attuale immaginario telvisivo, e alla frammentazione dell’audience e della fruizione, dettate dalla moltitudine dei canali e dallo streaming. Nel 2018, l’utopia di un paese unito da un unico programma tv. Recuperare Roseanne oggi è, in un certo senso un’intuizione geniale da parte di quella che questa Casa bianca chiame «l’elite mediatica» – meglio ancora, visto che la sua star – da portavoce di valori associati al partito democratico – oggi è una dichiarata sostenitrice di Trump.

 

Buona parte del primo episodio del reboot è, non a caso, dedicata al fatto che Roseanne (il personaggio) ha votato per lui, e a come questo la mette in rotta con parte della famiglia, a partire dalla sorella Jackie (Laurie Metcalf) passata alla storia per il primo bacio lesbico del prime time. Nonostante questa defezione «dall’altra parte», o forse proprio per quella, Roseanne made in 2018 (ma la ABC ha già annunciato una seconda stagione) è un gioco di equilibrismi culturali da vertigine – DJ è un veterano con moglie al fronte e figlioletta afroamerican, il figlio di Darlene va a scuola vestito da bambina, con una gonnellina di strass, e Becky cerca l’indipendenza economica offrendosi, per cinquantamila dollari, come mamma surrogata a una bionda yuppie che pesa almeno cento chili meno di Roseanne. Tutto intelligente e ben scritto, ma altrettanto artificioso, quando non un po’ forzato. Come il sapore di un’utopia disegnata dal marketing.

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