Roma, il regolamento sui beni comuni non c’è e la giunta desertifica la città
Nuovo mutualismo e corpi intermedi Non c'è solo l'Angelo Mai, migliaia di spazi sociali rischiano lo sfratto e i sigilli. Presentate 15 mila firme per una delibera di iniziativa popolare
Nuovo mutualismo e corpi intermedi Non c'è solo l'Angelo Mai, migliaia di spazi sociali rischiano lo sfratto e i sigilli. Presentate 15 mila firme per una delibera di iniziativa popolare
Edifici in disuso della Marina militare, ex convitti come l’Angelo Mai, capannoni abbandonati, pezzi di Agro romano con casali, ex conventi come la Casa internazionale delle donne a Trastevere: sono migliaia a Roma gli spazi pubblici, non solo di proprietà del Comune, occupati da anni e gestiti per la collettività da associazioni e centri sociali.
Entro lo scorso 30 maggio la “Coalizione Beni comuni di Roma” ha raccolto 15 mila firme (12 mila validate) per una delibera di iniziativa popolare che propone alla giunta del Campidoglio un regolamento di gestione. Le firme, ne bastavano 5 mila, sono state consegnate già lunedì scorso, stasera alla Villetta della Garbatella – ex casa del fascio liberata dai partigiani e ora di proprietà dell’Ater, l’azienda municipale che ha acquisito l’immenso patrimonio dell’ ex Istituto case popolari – ci sarà la festa per il successo della raccolta.
La delibera di iniziativa popolare dovrebbero obbligare la sindaca Virgina Raggi ad affrontare una discussione nell’Aula Giulio Cesare su una tra le questioni più sentite dalla cittadinanza ma ancora non affrontate. Da due anni invece si continuano a snocciolare gli effetti della delibera del commissario Tronca e le realtà del nuovo mutualismo urbano, allo scadere delle vecchie convenzioni con il Comune risalenti agli anni ’90, o perché non riescono a pagare i canoni d’affitto a prezzi di mercato per accedere ai nuovi bandi, cosa che pende anche sulla prestigiosa Casa internazionale delle donne, vengono sfrattati o chiusi con i sigilli, comunque restano alla mercé dell’ultimo dirigente in capo del mega ufficio del Patrimonio, in una vorticosa girandola di nomine che non sembra finire mai.
Il nuovo regolamento proposto dalle 127 realtà della Coalizione Beni comuni di Roma è improntato allo schema standard elaborato da Labsus, laboratorio di esperienze di rigenerazione urbana e gestione condivisa di spazi e verde pubblico diretto da Gregorio Arena, professore di diritto amministrativo all’università di Trento. Labus sta facendo scuola in tutta Italia, con oltre mille regolamenti di questo tipo approvati in grandi città come Torino, Bologna, Brescia ma anche in paesi molto piccoli. Non è l’unica proposta in campo.
«Noi abbiamo una proposta più avanzata di regolamento, basata su principi non di sussidiarietà come Labsus ma sul di autogoverno, sul modello implementato a Napoli dal sindaco De Magistris», dice Alessandro Torti, 28 anni, fresco di laurea in Scienze politiche, parte attiva della rete “Decide Roma” che raccoglie gran parte delle realtà aggregative negli spazi sociali occupati. Dopo Napoli, con l’esperimento pilota dell’asilo Filangeri, ora anche a Torino la giunta pentastellata della sindaca Chiara Appendino sta adottando anche questa nuova forma di regolamento a partire dallo spazio della Cavallerizza, antica scuderia reale, occupato da quattro anni e trasformato in teatro off nello stesso circuito dell’Angelo Mai.
«Comunque sia il regolamento Labsus sia il nostro – dice ancora Alessandro Torti – partono da basso e sarebbero entrambi un grosso passo in avanti rispetto alle pretese di gestione dall’alto dell’amministrazione Raggi che intende muoversi attraverso i bandi spazio per spazio che prescindono dalle realtà associative già strutturate, dalla loro storia e dalle esigenze dei territori e chiedono fidejussioni sul pagamento dei canoni arretrati, manutenzioni e messe a norma a tempi record, resoconti annuali su attività imposte. Cose che non stanno funzionando neppure per gli spazi ancora inutilizzati, tanto che alcuni bandi sono andati deserti».
La verità è che la giunta Raggi si attiene a un modello vecchio, che richiama l’edilizia partecipata e il cohousing, a prezzi di mercato ma calmierati. Mentre il modello autogestionario riprende il concetto di “uso civico” che Stefano Rodotà e Ugo Mattei avevano mutuato da un residuato medievale della nostra legislazione – l’uso collettivo di boschi e terreni demaniali da parte di comunità montane – trasportandolo nel tessuto metropolitano da rigenerare.
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