Ci sono due uomini iscritti nel registro degli indagati della procura di Roma per il rogo del camper nel quale morirono tre sorelle rom a Centocelle, nella periferia orientale della capitale, lo scorso 10 maggio. I due sarebbero di origine rom. Sono accusati di omicidio plurimo, tentato omicidio e porto di oggetti incendiari. Alla loro identificazione si è arrivati dalla deposizione del padre delle vittime, da alcune testimonianze e dalle immagini riprese dalle telecamere a circuito chiuso.

Sono passati venti giorni, dalla notte del rogo di via della Primavera causato da una bottiglia incendiaria lanciata contro il camper della famiglia Halilovic, 11 persone rom di origine bosniaca, senza cittadinanza ma nati in Italia. Francesca, Angelica ed Elisabeth Halilovich, le tre sorelle di 4, 8 e 20 anni, morirono sul colpo. «Sono morti del quartiere», scrissero gli antirazzisti di Centocelle che si radunarono a centinaia sul luogo dell’incendio. Le tre vittime, rivelò l’autopsia, finirono bruciate prima ancora di soffocare. Le fiamme divamparono nel parcheggio di un centro commerciale, in una zona tutt’altro che oscura o dimenticata dalle luci della città, posta sotto l’obiettivo elettronico della vigilanza. A

nche per questo motivo, pareva che la cattura degli assassini fosse solo questione di ore, tanto più che di fronte all’emozione generale, alla richiesta di giustizia del presidente della Repubblica e al cordoglio di Papa Francesco, dalla procura arrivavano segnali di ottimismo sull’esito dell’inchiesta, assieme alla certezza che l’assassino dovesse trovarsi nei campi rom della capitale. La cosiddetta «pista interna», dissero subito gli inquirenti, era più attendibile di un attentato xenofobo, magari compiuto da qualche gruppuscolo dell’estrema destra decisosi a passare dalle parole ai fatti.

Si passarono al setaccio le storie travagliate degli insediamenti, gli scontri interni nei campi. I pubblici ministeri Pierfilippo Laviani e Antonino di Maio stanno approfondendo altri episodi incendiari, verificatisi dentro ai campi nei giorni precedenti e successivi alla strage.

La notizia degli indagati conferma la pista della barbarie, definisce il profilo di una guerra impazzita divampata dentro al popolo dell’abisso, dei novelli«brutti, sporchi e cattivi», nell’arcipelago dei campi abbandonati ai margini della metropoli e vessati dal meccanismo perverso dell’emergenza reso pubblico dalle carte dell’inchiesta Mafia Capitale. Alla Barbuta ci sono decine di container in fila su un terreno in passato oggetto di contese giuridiche e ricorsi incrociati, posto ai confini tra Roma e Ciampino.

Qui, in uno dei sette insediamenti autorizzati del comune di Roma, aveva vissuto Romano Halilovic, il padre delle ragazzine, prima di essere cacciato con tutta la famiglia. E qui tornava a trovare i parenti, pare preoccupato per la propria incolumità al punto da non rivelare dove si fosse trasferito con la sua famiglia.

Storie di racket, si dice, di taglieggiamenti per un tetto di lamiera sulla testa. Il contesto di povertà estrema, in una baraccopoli che qualche anno fa venne sanzionata dal tribunale civile a causa del suo carattere mono-etnico e dunque discriminatorio. L’insediamento, sosteneva la sentenza, era stato costruito «in modo da ostacolare l’effettiva convivenza con la popolazione locale, l’accesso in condizione di reale parità ai servizi scolastici e socio-sanitari e situato in uno spazio dove è posta a serio rischio la salute delle persone ospitate al suo interno». Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks definì la Barbuta «segregazione su base etnica».