Tre presidenti di Regione, quelli che si sono succeduti alla guida dell’Abruzzo nelle ultime legislature, sono sott’inchiesta per la tragedia dell’Hotel Rigopiano a Farindola (Pescara), che il 18 gennaio del 2017 venne travolto e sbriciolato da una valanga che fece 29 morti, tra clienti e personale di servizio. Avvisi di garanzia sono stati recapitati, dai carabinieri forestali, all’attuale governatore e anche senatore Luciano D’Alfonso e ai suoi due predecessori Gianni Chiodi e Ottaviano Del Turco.

Debbono rispondere di concorso in omicidio colposo, lesioni e disastro colposo. Le accuse, mosse dalla Procura di Pescara, riguardano la mancata realizzazione della Carta di localizzazione dei pericoli da valanga (Clpv), le cui vicissitudini, decennali, sono state ricostruite, in questi mesi, attraverso sequestri di atti e interrogatori. Inquisiti anche gli assessori con le deleghe alla Protezione civile che ci sono stati dal 2007 ad oggi, cioè Tommmaso Ginoble, Daniela Stati, Gianfranco Giuliante e Mario Mazzocca. E con loro diversi dirigenti e funzionari regionali.

Sotto accusa, per il disastro del resort, erano precedentemente finiti il presidente della Provincia di Pescara, Antonio Di Marco; il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta; il direttore dell’hotel, Bruno di Tommaso e persino l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo.

Ora il colpo di scena. La Carta delle valanghe, attesa dal ’92, è stata approvata solo nell’agosto 2017, sette mesi dopo la catastrofe. «Se la Regione Abruzzo, come previsto dalla legge 170 del marzo 2014, avesse realizzato la Carta delle valanghe, si sarebbe evitato il disastro di Rigopiano, perché ai Comuni sarebbero stati imposti vincoli edilizi e ordini di sgombero per tutte le strutture situate in aree valanghive…»: lo ha sempre sostenuto, tramite i propri legali, il sindaco Lacchetta. «Era ciò che chiedevamo, una risposta dallo Stato contro una parte di esso che non ha funzionato e non ha garantito ai suoi cittadini i principi sanciti dalla Costituzione», così il comitato “Vittime di Rigopiano”. «Non ci aspettiamo processi sommari – dichiara Filippo Di Biase, papà di Ilaria Di Biase, di Archi (Ch), che lavorava come cuoca al Rigopiano e non ha avuto scampo – ma solo verità e giustizia».