Schiacciati e seppelliti sotto il ghiaccio e le macerie del resort di lusso. Morirono in 29 lo scorso 18 gennaio, a Farindola (Pescara), dove una valanga distrusse l’hotel Rigopiano, al cui interno – tra ospiti e personale – erano in 40: parecchi avrebbero voluto ripartire quel giorno, invece rimasero bloccati nella struttura perché l’unica via d’accesso, la provinciale 8, era sommersa da oltre due metri di neve.

Ora, per quella sciagura, ci sono 23 indagati: il presidente della Provincia di Pescara, Antonio Di Marco; il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta e l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo, trasferito da poco a Roma presso il dipartimento dei Vigili del fuoco; funzionari della prefettura e dirigenti della Regione Abruzzo. I reati ipotizzati, dalla Procura di Pescara, sono di omicidio e lesioni plurime colpose, falso e abuso edilizio.

In questa tragedia, secondo i pm, la prefettura ha mostrato lacune che si sono rivelate fatali. Nonostante l’allerta e le emergenze, con l’intero Abruzzo flagellato da tormente di neve e scosse, «il prefetto – scrivono i pm – attivava tardivamente il Centro soccorsi e così ometteva di svolgere tempestivamente il ruolo assegnato dalla legge, di coordinamento nella individuazione delle deficienze operative» e di disposizione «del divieto di percorrenza e conseguente evacuazione tempestiva del suddetto hotel».

La prefettura «solo alle ore 18.28 del 18 gennaio, si attivò nel chiedere l’intervento di personale e attrezzature dell’Esercito italiano per lo sgombero della neve nei paesi montani della provincia di Pescara e nel far richiedere, tramite mail, 3 turbine spazzaneve alla sala operativa della Regione Abruzzo».

La slavina che ha devastato il Rigopiano è arrivata poco prima delle 17, ma questi ritardi e omissioni, secondo il capo d’accusa, «determinavano le condizioni per cui la strada provinciale dell’hotel Rigopiano fosse impercorribile per ingombro neve, di fatto rendendo impossibile a tutti i presenti in detto albergo di allontanarsi dallo stesso, tanto più in quanto allarmati dalle scosse di terremoto» in atto.

Ma, in questo dramma, della prefettura si ricorda anche l’ormai celeberrima telefonata tra una funzionaria della sala operativa e chi, per primo – lo chef Quintino Marcella – aveva ricevuto l’allarme dell’avvenuto disastro a Rigopiano. «Senta – rispose la funzionaria che non credette a quell’allarme – questa storia gira da stamattina. I vigili del fuoco hanno fatto le verifiche. È crollata una stalla». Alle insistenze di Marcella tagliava corto: «La mamma degli imbecilli è sempre incinta». E così lo liquidò.

Le indagini, dei carabinieri forestali, hanno portato alla luce anche le vicende urbanistiche dell’hotel e per questo sono sott’inchiesta anche due sindaci che hanno preceduto Lacchetta, ossia Massimiliano Giancaterino, fratello di una delle vittime, e Antonio De Vico. I funzionari della Regione Abruzzo sono invece in guai giudiziari perché «sebbene incombesse su di loro» la responsabilità di realizzare la Carta delle valanghe per l’intero Abruzzo «non si attivavano in alcun modo, nemmeno predisponendo apposite, doverose, richieste di necessari fondi da stanziare nel bilancio regionale».

Se la Carta fosse esistita la località di Rigopiano sarebbe stata riconosciuta come «esposta a tale pericolo di valanghe» e il comitato tecnico regionale per lo studio della neve e valanghe avrebbe deciso «l’immediata sospensione di ogni utilizzo in stagione invernale dell’albergo, fino alla realizzazione di interventi di difesa anti valanga della struttura, dighe di deviazione, reti, deflettori da vento, ombrelli da neve». La Provincia, che ha competenza sull’arteria che conduceva al Rigopiano, avrebbe dovuto invece garantire la percorribilità della via, cosa che non fu.