In questi giorni, i delegati di circa 200 paesi, sono confluiti a Sharm-el-Sheik per prendere parte alla Cop27, la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, i cui lavori si concluderanno il 18 novembre. Dopo la Cop26 di Glasgow, in cui gli stati membri hanno rinnovato il loro impegno per gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, questo summit ha l’obiettivo di comprendere come e in che misura i governi intendano tener fede agli impegni assunti.

Da quanto emerso finora, si parla soprattutto di ridurre le emissioni di CO2, fissare l’obiettivo emissioni-nette zero entro il 2100, intervenire economicamente a sostegno dei paesi più colpiti e agire per tenere l’innalzamento di temperatura media globale sotto la soglia di 1,5°. L’Italia, ad esempio, ha confermato il suo impegno nella riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030 e nel raggiungimento delle emissioni nette zero entro il 2050.

Purtroppo però, guardando ai dati rilasciati nell’ultimo rapporto IPCC e al recente appello dell’UNEP, emerge in maniera evidente come anche laddove gli impegni presi dalle nazioni venissero rispettati alla lettera, potremmo comunque assistere ad un innalzamento della temperatura media globale oltre la soglia dei +2,5° C, con effetti devastanti sugli ecosistemi marini e terrestri, mettendo a rischio oltre il 30% delle specie viventi del pianeta. Dunque la soglia di +1,5° fissata a Parigi e tuttora usata come riferimento, è con molta probabilità, un obiettivo già irraggiungibile.

Ma non è tutto. Parlare di azione per il clima riducendo il discorso ad un mero esercizio di aggiustamento delle temperature e delle emissioni, come se la crisi ecologica fosse un problema che si risolve giocando con i numeri è estremamente pericoloso. Questa narrazione riduzionista, semplifica la complessità della crisi ecologica, mancando di affrontare la necessità di andare oltre la riduzione delle emissioni e mettere in discussione in primo luogo quel modello di sviluppo, produzione e consumo che strutturalmente e inevitabilmente le produce.

Come ha recentemente dichiarato Vandana Shiva, «la destabilizzazione del clima è la conseguenza della violazione dei processi e dei cicli ecologici e dei diritti della terra, dei diritti dei popoli indigeni, dei diritti delle future generazioni». La crisi climatica globale è infatti il sintomo di un intricato insieme di crisi che includono la salute dei suoli, degli ecosistemi, della società e della biodiversità.

Per intervenire ci vogliono strategie di riparazione ecologica e sociale che tengano conto di questa complessità, partendo dal modo in cui produciamo e distribuiamo il cibo, in cui utilizziamo l’energia, in cui costruiamo le città, in cui ci relazioniamo con gli habitat e gli ecosistemi locali. Senza questo passaggio, ogni impegno che uscirà dai summit annuali sul clima, sarà destinato a rimanere insufficiente e ad alimentare le finte soluzioni del greenwashing istituzionale del business as usual.

Le risposte per far fronte alla crisi e dare impulso all’azione internazionale per il clima sono di fronte a noi, nella rigenerazione ecologica già portata avanti dalle comunità locali e contadine in tutto il mondo.

Fermare la devastazione, promuovere l’agroecologia e la sovranità alimentare, la cura e il ripristino attivo della biodiversità delle foreste, delle montagne, dei fiumi, dei mari e del suolo, delle collettività e dei territori, sono l’unica chiave che abbiamo per riparare al caos climatico.