«Fiducia e speranza, sono le due chiavi per portare avanti la riforma penitenziaria. La prima per chi è fuori dal carcere: fiducia nelle istituzioni e in un sistema che preveda e applichi pene al tempo stesso giuste e certe. La seconda per chi è recluso e deve poter continuare a credere nella possibilità di un reinserimento sociale». Giovanni Maria Flick, ex presidente della Corte Costituzionale, spiega perché è  intervenuto ieri a sostegno di un appello a tutte le forze politiche, pur non sottoscrivendolo, affinché si approvi la riforma penitenziaria, promosso da Antigone e Magistratura democratica e sottoscritto da giudici, giuristi ed esperti penitenziaria tra i quali Valerio Onida, Francesco Cascini, Massimo De Pascalis e Emilio Di Somma.

Giovanni Maria Flick

 

Professore, perché è così importante approvare questo primo decreto legislativo?

È solo il primo passo, ma significativo, per rendere la reclusione più vivibile. Sia attraverso un intervento sulla sanità penitenziaria – troppe morti ci sono in carcere, nonostante sia stata abolita la pena di morte -, sia con un’apertura ulteriore e necessaria alle misure alternative, sia con una serie di correzioni sulla gestione della vita in carcere, sia rimuovendo i limiti, gli ostacoli e gli automatismi che limitano l’intervento e la decisione dei giudici di sorveglianza. E di fronte agli allarmismi che qualcuno ha sollevato, parlando addirittura di «svuota carceri», aggiungo che non lo è assolutamente: l’ampliamento delle misure alternative non si applica ai condannati in via definitiva per delitti di terrorismo o criminalità organizzata, e al cosiddetto ergastolo ostativo nei confronti del quale si sta combattendo una battaglia di fronte alla Corte europea dei diritti umani. E invece un maggiore accesso alle misure alternative è finalizzato ad evitare che l’esecuzione della pena si risolva in un fattore carcerogeno, perché le statistiche dimostrano che chi sconta la pena in carcere ha ben più probabilità di recidiva rispetto a chi la sconta a contatto con la società. In sostanza con questa riforma si affronta in modo più strutturale, e non soltanto emergenziale, il tema del sovraffollamento e della invivibilità del carcere, condannata più volte dalla Cedu.

Visto che ancora ieri si è parlato di lei come possibile premier di un governo istituzionale, anche per la sua autorevolezza riconosciuta da tutti, quali argomenti userebbe per convincere le forze più recalcitranti, M5S e centrodestra, della necessità di questa riforma?

Intanto voglio chiarire la premessa: qualcuno ha fatto riferimento al mio nome, come ad altri nomi, a mio avviso inopportunamente. Sia perché spetta esclusivamente al capo dello Stato la scelta di chi nominare sulla base delle consultazioni che sta conducendo, sia perché è del tutto fuori luogo il gioco all’indovinello. Detto questo, e soltanto come persona che si occupa di diritti fondamentali e carcere, dico subito che questo decreto legislativo raccoglie una minima parte, seppur significativa, delle istanze per conciliare la certezza della pena con l’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione. Secondo quest’ultimo, infatti, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il che vuol dire che una pena inumana, come quella indicata dalla Cedu che consegue al sovraffollamento, non è una pena: è un illecito. In secondo luogo, una pena più umana contribuisce alla sicurezza molto meglio che “buttare la chiave”.

Il ministro Orlando ha scritto al Parlamento per chiedere che il decreto attuativo venga discusso dalle Commissioni speciali. Ma questa volta ha anche sottolineato che i dieci giorni previsti dalla legge, trascorsi i quali il governo potrà dare in ogni caso il via libera definitivo al provvedimento, decorrono dal momento in cui sono stati trasmessi gli atti e non – come sostiene il centrodestra – dal giorno in cui il decreto venisse incardinato alle Commissioni. Lei cosa ne pensa?

Il decreto è stato scritto dal governo nei limiti della delega ottenuta dal Parlamento, che ha ampiamente dibattuto sul tema. Poi è stato inviato alle Camere che hanno reso i loro suggerimenti, quelli del Senato sono state più critici. Ma il governo non è vincolato al rispetto delle indicazioni: ne ha preso visione, ne ha adottate alcune e non altre, quelle che riteneva snaturassero il decreto. A questo punto il testo è tornato alle Camere che hanno dieci giorni per esprimere un parere. Anche questa volta non vincolante, altrimenti sarebbe troppo facile bloccarlo, per esempio non pronunciando mai la valutazione. Il fatto che in questo momento siano in funzione le Commissioni speciali non cambia nulla formalmente. Oltretutto ci sarà una valutazione del presidente della Repubblica in sede di emanazione del provvedimento. Certo, credo che sia molto opportuno che per un provvedimento di questa portata, che è il primo inizio della lunga marcia verso l’effettività dei diritti fondamentali in carcere, ci sia la valutazione consapevole di tutti i partiti. Per questo io capisco che il ministro, pur desiderando l’adesione di tutti, sia disposto se necessario a percorrere la strada della responsabilità del governo fino in fondo. E apprezzo l’invito del presidente della Camera a una «pausa di riflessione» prima di decidere.