Riaperto l’aeroporto di Tripoli. Ma la tensione resta altissima
Senza tregua Al-Sarraj sfida la no-fly-zone voluta da Haftar. La denuncia dell’Oim: nelle prime due settimane del 2020 in 953 sono già stati riportati nei centri di detenzione libici
Senza tregua Al-Sarraj sfida la no-fly-zone voluta da Haftar. La denuncia dell’Oim: nelle prime due settimane del 2020 in 953 sono già stati riportati nei centri di detenzione libici
Dopo 24 ore di chiusura, il Governo di Accordo nazionale (Gna) riconosciuto internazionalmente di al-Sarraj ha annunciato ieri la riapertura dell’aeroporto di Mitiga, l’unico scalo attualmente funzionante nella capitale libica Tripoli. Le attività erano state sospese mercoledì dopo che era stato colpito da 6 razzi Grad lanciati dall’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) del generale Haftar.
A dispetto delle promesse di tregua della Conferenza internazionale di Berlino di domenica, la tensione è altissima nel Paese: due giorni fa Ahmed al-Mismari, il portavoce dell’Enl, ha annunciato una no-fly zone sullo spazio aereo di Tripoli riattivando un divieto che era stato sospeso con il cessate il fuoco dello scorso 12 gennaio mediato da turchi e russi. Motivo? Secondo l’Enl, che ieri ha affermato di aver abbattuto un drone turco in dotazione al Gna, il governo di al-Sarraj non avrebbe rispettato le condizioni della tregua del 12: «I nostri aerei – ha comunicato al-Mismari – hanno individuato il trasferimento di un gruppo di terroristi dello Stato islamico dalla Siria alla Libia occidentale sotto la supervisione dell’intelligence turca». La risposta del Gna è stata affidata ieri a Khalid al-Mishri, il presidente dell’Alto Consiglio di Stato libico: «Siamo in grado di rispondere alle violazioni (dell’Enl), ma, se continuano, passeremo dalla difesa all’attacco e porremo fine alla ribellione».
Nelle ore in cui a Tripoli si continuava a combattere, ad Algeri si riunivano gli stati vicini alla Libia (Tunisia, Egitto, Sudan, Ciad, Niger e Mali) per discutere del dossier libico. «In qualità di paesi limitrofi ci opponiamo ad un intervento straniero», ha detto il ministro degli esteri algerino Boukadoum. Più duro è stato il suo pari egiziano Shoukry che ha definito i memorandum di sicurezza e marittimi firmati da Ankara e Tripoli lo scorso novembre «una violazione del diritto internazionale» e «un’interferenza flagrante della Turchia nella legge di un paese arabo».
Ieri, intanto, una delegazione dell’Unione Europea (Ue) ha espresso la sua «profonda preoccupazione» perché continuano ad essere sospese le operazioni della compagnia petrolifera libica (Noc) negli impianti del Paese a causa dei blocchi decisi da Haftar negli ultimi giorni. In un comunicato, l’Ue si è poi detta «fortemente impegnata ad assistere il popolo libico e ad accompagnarlo nel processo di creazione di una Libia stabile, sicura e prospera».
Non preoccupa affatto invece a Bruxelles il destino dei migranti. Ieri l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha annunciato che 129 migranti di nazionalità sudanese sono ritornati nel loro Paese dalla Libia nell’ambito di un programma di «rimpatrio volontario».
Un numero che fa il paio con un altro dell’Oim secondo cui, nelle sole prime due settimane del 2020, 953 migranti sono stati riportati nei lager libici. Di loro, al di là dei proclami di Berlino, la “civile” Europa non ha alcun interesse. Se non quello che stiano più lontani dai suoi confini.
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