«Credo che il cinema documentario non vada d’accordo con i dittatori» afferma Diana El Jeiroudi, regista siriana che ha presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia il film Republic of silence.

Gli eventi tragici che hanno caratterizzato l’ultimo decennio in Siria scorrono davanti la camera raccontandoci la situazione vissuta dall’interno, se il testo scritto come sostituto della voce fuori campo rafforza il carattere soggettivo dell’impresa è tuttavia proprio la realtà sofferente e complessa di quei territori che emerge da questi stralci di vita. Il successivo trasferimento a Berlino, con i paesaggi tedeschi come costante controcampo, ci parlano dei diversi milioni di siriani che hanno dovuto abbandonare il Paese mentre l’improvvisa detenzione del partner della regista, oggi direttore del Documentary Film Festival di Amsterdam, Orwa Nyrabia – con la grande campagna per la liberazione che ne è seguita – rappresenta il toccante punto di congiunzione tra le vicende politiche nazionali e la storia personale. Abbiamo intervistato El Jeiroudi a Venezia, chiedendole di raccontarci qualcosa in più su questo importante progetto.

Il film copre un arco di tempo piuttosto lungo, quando ha iniziato a girarlo?
Ho iniziato nel 2010 filmando in tutta la Siria, anche in villaggi molto piccoli, volevo guardare ciò che accadeva intorno a me con occhi nuovi. Poi nel 2011 è scoppiata la rivoluzione e dopo tre anni mi sono dovuta fermare a scrivere, frapponendo una distanza tra me e ciò che osservavo.

Diana El Jeiroudi

Spesso la situazione politica siriana sembra una condizione senza via d’uscita. Qual è attualmente il suo punto di vista?
Purtroppo non ho più fiducia nella politica e nei leader. Ho però fede nelle persone e credo che sia in Siria che nel resto del mondo ce ne siano molte che stanno comprendendo quanto poco potere hanno di influenzare le scelte. Credo che la situazione sia molto difficile ma penso anche che i siriani stiano costruendo il loro Paese. Non ce ne accorgeremo probabilmente per i prossimi dieci anni, ma un giorno gli effetti di questo processo emergeranno.

In «Republic of silence» ci sono alcune immagini molto forti, come le ferite di un cadavere di un combattente riprese da vicino. Perché ha scelto di mostrarle?
È un’immagine dura ma quando sei con una camera non scegli cosa filmare. Non essendoci alcun set per i documentari, devi lasciarti guidare dalla situazione in cui ti trovi, se c’è un cadavere bisogna riprenderlo. Nonostante questo ho tagliato molte scene chiedendomi fino a che punto potessi spingermi. Quell’immagine rappresenta una soglia, come un raggiungimento della maggiore età, senza di cui il film sarebbe stato molto diverso.

Si parla anche molto di cinema, con il festival del documentario DOX BOX che lei e Nyrabia organizzavate. Perché lo avete interrotto?
La rivoluzione è scoppiata durante l’ultima giornata del festival nel 2011. Ci siamo allora chiesti cosa fare per l’anno successivo e nonostante la rassegna per noi avesse un grande significato non ce la siamo sentita di dar vita ad una situazione il cui umore avrebbe dovuto essere festoso. Inoltre la sala dove proiettavamo i film era gestita dal Ministro della cultura che aveva già espulso due filmmaker e continuava a fare pressioni su argomenti che non dovevamo trattare, un comportamento inaccettabile. Così abbiamo preso la decisione di mostrare film siriani nel resto del mondo, in 38 città, piuttosto che organizzare la rassegna in Siria. Per noi era importante anche perché chi non supporta la dittatura di Bashar al-Assad ha molto paura, volevamo prendere posizione e mostrare che si può affermare il proprio dissenso.