«Venghino signori venghino», a poco prezzo sono all’asta le auto blu (quelle che con un litro di benzina percorrono una fermata di autobus, imperdibile acquisto per il cassintegrato). Altrimenti è di grande consolazione il pacchetto-Senato «gratis», e comunque, ultima offerta di giornata, le moriture province contribuiranno con il loro sacrificio a mettere «nelle tasche degli italiani 80 euro» (sempre citazione renziana). Poco importa se allo scopo occorrono molti miliardi mentre dalla parziale abolizione delle province si stima un risparmio di un centinaio di milioni. Di questo passo si potrebbe anche immaginare di dimezzare la spesa elettorale e andare al voto ogni dieci anni anziché ogni quattro.

Il grande spot, la turbo demagogia, giustificata da una campagna elettorale europea importante quanto difficile, è uno dei segni distintivi della fulminante ascesa dell’ex sindaco di Firenze (che invece non bada a spese quando si tratta di faraoniche grandi opere come il sottopasso ferroviario del capoluogo fiorentino). Tutti sanno (lo dice la Corte dei Conti) che il trasferimento dei servizi dalle province alle aree metropolitane (promesse da decenni e ancora sconosciute ai più) non ci farà risparmiare. Ma è importante che il popolo sovrano lo creda. E’ fondamentale che il grillino dubbioso sia attratto dal messaggio acchiappavoti, uno zero virgola in più il 26 di maggio potrebbe fare la differenza. Oltretutto in questo caso il capro espiatorio non impietosisce nessuno, le province non trovano grandi avvocati difensori.
Per il senato «gratis» la questione è già più seria e propagandarne l’abolizione per risparmiare dà la misura del degradante abbrivio del dibattito politico. Come se le istituzioni rappresentative avessero un prezzo (non un costo), come se non fosse la paurosa corruzione (con le Regioni potente volano) la causa prima del distacco tra cittadini e istituzioni.

Tuttavia questa gara a chi, tra il premier e Grillo, è più furbo sul mercato elettorale, incontra l’ostacolo del primo voto di fiducia dell’era Renzi (certamente non l’ultimo). Il grande decisore, l’ex sindaco che vorrebbe rivoltare la Costituzione con tweet (ma già davanti alle scuole si formano gruppi di famiglie che contestano le chiacchiere del mercoledì), che vorrebbe assumere e licenziare i ministri come fossero assessori, che precarizza tutti e per sempre con il decreto del ministro RoboCoop, già deve allinearsi ai suoi predecessori chiamando il parlamento alla fiducia (160 voti, 9 in meno dell’insediamento del governo).

Il voto di ieri serve a occultare lo sbandamento della traballante coalizione. I Popolari (qualunque cosa voglia dire) si dividono, lo stesso partito del presidente del consiglio si agita sulle questioni di politica economica e del lavoro. Come evidenziano le promesse di alcuni esponenti del Pd di votare contro il decreto sulla precarietà, e come, sul fronte della spending review, avverte il presidente Napolitano, preoccupato di ulteriori tagli «immotivati» alla spesa.

Nemmeno la maggioranza di fatto, quella che lega Renzi a Berlusconi giocando la carta delle riforme, gode di buona salute con Forza Italia in pieno marasma. Il rischio alla fine è sempre quello, più il pallone si gonfia più rischia di scoppiare.