La principale sorpresa di queste elezioni regionali non viene dall’esito del voto, largamente anticipato dall’insipienza delle opposizioni prima ancora che dai sondaggi. Quel che più colpisce è la diserzione dalle urne nelle due regioni che rappresentano per motivi vari la parte più avanzata della società italiana. È certamente vero che la partecipazione al voto, dal dopoguerra a oggi, è andata via via scemando; il 18 aprile del ‘48 andò al voto il 92% degli italiani, alle ultime elezioni politiche, lo scorso 25 settembre, il 73%. Quasi un elettore su cinque in meno nell’arco di poco più di settant’anni. Ma il voto regionale indica qualcosa di assai più pervasivo e dirompente.

Le prime elezioni per i consigli regionali si sono svolte il 7 giugno 1970. Allora nel Lazio votò il 92% degli elettori e in Lombardia il 96%; oggi si registra un’affluenza, rispettivamente del 37% e del 42%. Un vero e proprio crollo della partecipazione, più di un elettore su due in meno a 50 anni dalla nascita del nostro regionalismo. Questa massiccia astensione dal voto rivela la distanza praticamente incolmabile fra le istituzioni e i cittadini. Il regionalismo italiano è fallito, crollato sotto il peso di troppi scandali, di amministrazioni lontane e opache, di classi politiche mediocri ma fedeli ai partiti grazie a leggi elettorali che sono state appositamente studiate per conservare il potere. E probabilmente non basta.

Il decentramento attuato non trova corrispondenza nei bisogni reali della società italiana. Il servizio sanitario nazionale, in particolare, spacchettato per venti ha sortito prestazioni sempre più inadeguate, maggiori profitti privati a danno del pubblico, oscena competizione per trasferire risorse economiche dalle regioni più povere a quelle più ricche. La sinistra, cui si deve il primo impulso per la nascita dell’istituto regionale, dovrebbe tornare a riflettere su decentramento e autonomie, particolarmente ora che, nonostante la crescente distanza fra governi regionali e cittadini, si vorrebbe mettere in atto la disastrosa riforma del Titolo V della Costituzione.

Ma dov’è la sinistra? L’esito elettorale in Lazio e in Lombardia rafforza la convinzione che le promesse elettorali generose ma improvvisate, come quella di Unione Popolare, non danno buoni risultati. Sappiamo da tempo che il Partito Democratico non si fa portavoce di radicali critiche a un sistema economico, il neoliberismo, che rischia di trascinare il genere umano all’estinzione per la sua congenita incapacità a separare sviluppo e profitti, progresso economico e distruzione dell’ambiente. Sappiamo anche che una parte non marginale dell’elettorato italiano tradizionalmente di sinistra, ancora disposto ad andare a votare per far muro contro le destre, sceglie il Partito Democratico, per l’assenza di un soggetto politico alternativo e maturo che fatica a farsi strada per l’insufficiente forza delle sua comunicazione ma ancor più per non aver fatto fino in fondo i conti con le eredità del passato.

In queste circostanze non c’è contraddizione nel lavorare per la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra e nell’auspicare che le convulsioni per la definizione di una linea politica e per l’individuazione di una leadership portino infine il Partito Democratico ad abbandonare le cause comuni con le destre per abbracciare quelle che furono storiche della sinistra.