Le forze armate del Governo di Accordo Nazionale (Gna) continuano la loro avanzata nell’ovest della Libia: ieri Tripoli ha annunciato la conquista della città strategica di Tarhuna. Ma il premier Al-Sarraj mostra i muscoli e promette di voler proseguire la guerra contro l’autoproclamato Esercito Nazionale Libico (Enl) di Khalifa Haftar fino a Bengasi, in Cirenaica. In questa situazione incandescente, la scorsa settimana il comando degli Stati Uniti in Africa (Africom) ha denunciato l’arrivo di 14 caccia russi nello stato nordafricano minacciando di «dispiegare sistemi d’interdizione aerea ad ampio raggio» qualora la Russia dovesse consolidare la sua presenza nello stato nordafricano. Per provare a capire quanto sta accadendo in Libia, alcuni giorni fa abbiamo sentito Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group per le questioni libiche.

Dopo la denuncia americana dell’arrivo dei jet russi, siamo vicino ad una escalation tra Russia e Usa?

La politica americana nei confronti della Libia in questi ultimi anni è stata di disengagement, non di presenza attiva. Certo, l’arrivo dei caccia russi preoccupano l’America. Tuttavia, per il momento, immagino più una politica di dichiarazioni e comunicati e non quella di escalation militare da parte diretta degli Usa. Le sue priorità restano altre.

Ritiene possibile uno scontro diretto tra Turchia e Russia o gli aiuti militari russi servono più in chiave difensiva a salvaguardare lo status quo?

Anche qui è difficile fare pronostici. Quando si iniziò a parlare del possibile arrivo di questi aerei – e stiamo parlando di circa due o tre mesi fa –il dispiegamento russo serviva a rafforzare l’offensiva di Haftar che allora era in corso a Tripoli ed aveva ancora margini di successo. Ora, però, con gli asset militari turchi a Tripoli e a Misurata e con il continuo afflusso militare turco, è rischioso usare questi caccia per un’offensiva, considerando anche che le forze sul terreno di Haftar non saranno in grado di controllare il territorio conquistato, cosa già visto ripetersi quest’ultimo anno. L’ipotesi che sia un dispiegamento difensivo ha una sua logica, ma non nascondo di aver sentito sia da parte degli uomini di Haftar che da fonti vicine ai suoi alleati internazionali indicazioni che ci possa essere un loro utilizzo offensivo.

Haftar è ormai indebolito militarmente. Potrebbe sfaldarsi il suo fronte interno e internazionale?

Non c’è dubbio che tra gli alleati arabi di Haftar ci sia da mesi una profonda frustrazione nei confronti del maresciallo. Noi come Crisis Group l’abbiamo sentito direttamente sia da emiratini che da egiziani. Preferirebbero avere un’altra persona: meno divisiva e che riuscisse a trovare anche qualche alleanza nella coalizione di Tripoli. Ma al momento non hanno un’alternativa. Tutti dicono di volere un processo di pace, ma al momento l’unica iniziativa che parla vagamente di un processo politico è quello di cui si è fatto promotore Saleh.

Il problema è che Aguila Saleh non è credibile: negli ultimi anni lo abbiamo visto sottoscrivere varie iniziative per poi essere comunque fonte dei problemi nella riconciliazione. Appoggiare l’iniziativa di Saleh da parte di alcuni esponenti di Tripoli ha il vantaggio di rompere un po’ la coalizione pro-Haftar. Ma ritengo poco realista la possibilità che questo sostegno possa tradursi in una fase successiva in un processo politico che permetta ai membri dei parlamenti rivali di accordarsi per un processo di pace.

La guerra civile libica assomiglia sempre più a quella siriana. E’ necessario un processo politico sul modello di Astana per arrivare ad un cessate il fuoco?

Certamente un accordo russo-turco potrebbe essere un punto di partenza per una descalation in Libia. Il problema, però, non finisce qui perché sono in gioco altre rivalità. Gli americani non vogliono vedere la Russia nel posto di comando in Libia, né vogliono vedere rafforzata lì loro presenza a lungo termine. Dall’altra parte abbiamo anche gli stati arabi sostenitori di Haftar che si vedono come grande fratello della Libia.

In primis il Cairo e Abu Dhabi che negli ultimi mesi hanno avuto un rapporto sempre un po’ complicato con la Russia. Da una parte, infatti, sono alleati militari sullo stesso fronte. Dall’altra, però, vogliono avere l’ultima parola sul settlement libico. Gli obiettivi strategici russi, egiziani ed emiratini sono abbastanza diversi.

Il ruolo dell’Italia, così come quello dell’Europa, è stato ambiguo in Libia. Di Maio rivendica un ruolo da protagonista, ma Roma sembra tagliata fuori dalla partita libica.

Sì, non c’è dubbio che chi ha oggi influenza sul terreno in Libia sono quelli che danno sostegno militare e finanziario alle parti in causa. La Turchia di fatto conduce le operazioni militari per conto del governo di Tripoli. Lo stesso vale con Haftar dove gli unici che hanno vero peso sono gli emiratini che finanziano questa operazione e i russi che invece danno l’arsenale. In questo contesto, pertanto, un paese come l’Italia che si muove a livello diplomatico non ha la forza per plasmare il corso degli eventi. Di Maio ha cercato di fare la spola diplomatica tra l’una e l’altra parte però l’impatto che ha avuto lascia il tempo che trova.

La divisione del Paese in due entità (Tripolitania e Cirenaica) può essere l’unica soluzione per placare le violenze?

La divisione della Libia non è mai il fine della guerra. Lo dico dal 2011 quando già si paventava di questo scenario. Può essere un risultato della guerra, ma di certo non caleranno le ostilità se c’è una divisione amministrativa, cosa che di fatto è in corso dal 2015. Alla base del problema rimane il controllo dei proventi, del reddito delle vendite di petrolio. Una questione aperta sulla quale poi ci si continua a fare la guerra.