«All’inizio non credevo di essere una femminista. Ero per la difesa dei diritti delle donne, forse ero già femminista, ma non ne ero consapevole». Raghad ha 33 anni, vive nel governatorato di Ninive, nel nord-ovest iracheno culla di tante civiltà mesopotamiche. Ha attraversato gli anni terribili dell’occupazione dello Stato islamico e la sua è una delle tante testimonianze raccolte da Silvia Abbà in Il mio posto è ovunque. Voci di donne per un altro Iraq, edito da Astarte nella neonata collana Manifesta (curata da Renata Pepicelli), in collaborazione con Un Ponte Per (pp. 152, euro 16).

RAGHAD HA TANTE IDENTITÀ come numerose ne ha il suo paese: blogger, musulmana praticante, femminista, convinta sostenitrice della separazione tra politica e religione. La narrazione che fa di sé terremota quella esterna, appiattita, che vuole l’Iraq esclusivamente terra di conflitti militari e settari, involucro machista di esclusione delle donne, a priori.

Se certi sono i sistemi patriarcali in cui le donne irachene si trovano ad agire – e che si alimentano a vicenda: quello familiare, quello tribale e clanistico di comunità, quello istituzionale – altrettanto certa è l’esistenza di un orizzonte di lotta di lungo periodo.

I femminismi, nelle loro varie forme, attraversano e definiscono l’Iraq da un secolo, dagli anni Venti del Novecento e del colonialismo britannico fino agli attuali, dettati da un doppio fronte: la sempre più ampia partecipazione delle donne alla vita politica e sociale, una porta che loro stesse hanno spalancato nelle strade e le piazze della Rivoluzione d’Ottobre; e la chiusura difensiva del sistema di potere confessionale nato dall’occupazione anglo-americana, che si nasconde dietro un asettico sistema delle quote in una finzione di eguaglianza che è invece strumento ulteriore di cooptazione del consenso.

ABBÀ RICOSTRUISCE i tanti femminismi iracheni e il lungo percorso compiuto dalle donne d’Iraq negli ultimi cento anni conducendo all’interno delle ideologie politiche di riferimento speculari a quelle che hanno dettato la storia del paese (dalla colonizzazione al panarabismo, dal socialismo al baathismo), facendo parlare le donne. Sono loro a narrare se stesse e le proprie battaglie (molte vinte, certosino lavoro ai fianchi che ha segnato scelte politiche nazionali ma anche e soprattutto consapevolezza comunitaria).

E sono le loro parole a costringere al superamento dei limiti di un certo femminismo occidentale, bianco e liberale, che impone modelli, infantilizza le donne del sud del mondo, dimentica spesso il legame indissolubile e vizioso tra etnia, classe e genere e fatica a riconoscere le differenti identità con cui le donne possono decidere di agire nel proprio spazio di vita, individuale e collettivo.

DALLA LETTURA del libro di Abbà e dalle testimonianze delle donne irachene emerge chiara un’aspirazione, resa concreta dalle tante anime locali di movimenti globali come Non una di meno: l’internazionalizzazione della lotta femminista nella consapevolezza e il rispetto delle differenze culturali e sociali dei popoli, con una stella polare unica, l’idea fondativa che non ci potrà mai essere liberazione né reale eguaglianza senza la liberazione delle donne.