Si è svolto in un clima di commozione e di rabbia, nel municipio Umbaúba in Sergipe, il funerale di Genivaldo de Jesus Santos, il 38enne nero, malato di schizofrenia, rinchiuso dalla polizia in un bagagliaio da cui usciva fumo – probabilmente una granata con gas lacrimogeno – e lì, in quella sorta di camera a gas, morto per asfissia. «Non ha mai fatto del male a nessuno», ha riferito la moglie Maria Fabiana, ricordando come Genivaldo, che lascia anche un figlio piccolo, si curasse da 20 anni e avesse una vita normale: «Era una brava persona, un buon marito, un buon padre». Una morte atroce, la sua, che in Brasile ha suscitato una forte impressione e roventi polemiche.

IN BASE ALLA DICHIARAZIONE ufficiale della polizia stradale federale (Prf), l’uomo sarebbe stato arrestato perché avrebbe «fatto resistenza» e, a causa della sua presunta aggressività, sarebbero state impiegate «tecniche di immobilizzazione e strumenti offensivi a basso potenziale». Tuttavia, durante il tragitto verso il commissariato, si sarebbe «sentito male» e sarebbe stato condotto in ospedale, dove avrebbero accertato il decesso.
Ma la versione del nipote di Genivaldo, Wallison de Jesus – che, presente sulla scena, avrebbe lui stesso informato gli agenti della Prf dei disturbi mentali dello zio -, è completamente diversa: «Gli avevano intimato di alzare le mani e gli avevano trovato in tasca ricette mediche. Mio zio si era innervosito e mi aveva chiesto cosa avesse fatto di male. Gli avevo detto di calmarsi e mi aveva ascoltato». «Non si tratta di una fatalità, è un crimine», ha denunciato.

Dalle immagini e dai video che circolano sulle reti sociali si vede la vittima con metà del corpo, testa e busto, bloccata nel bagagliaio e le gambe fuori, a inalare il fumo che usciva dal veicolo. Finché la polizia, resasi conto che l’uomo era incosciente, non lo aveva portato in ospedale, ormai troppo tardi.
E mentre giovedì la Prf ha reso noto di aver avviato un’indagine per chiarire le circostanze della sua morte «nel più breve tempo possibile», si è fatta sentire anche Amnesty International, esigendo dal Ministero di Giustizia che si faccia chiarezza non solo sull’assassinio di Genivaldo, ma anche sull’operazione contro il traffico di droga condotta appena il giorno prima dalla Prf e dal Battaglione operazioni speciali (Bope) di Rio de Janeiro nella favela di Vila Cruzeiro, conclusasi con la morte di 26 persone.

UNA STRAGE che, nella storia della città carioca, è seconda solo a quella compiuta nel maggio dello scorso anno a Jacarezinho, quando i morti erano stati 28. Ma di cui, secondo il colonnello Luis Henrique Marinho Pires, la vera responsabile sarebbe la Corte Suprema, la cui decisione di proibire operazioni di polizia nelle favelas di Rio durante la pandemia avrebbe spinto i boss provenienti da altri stati a usare Vila Cruzeiro come «nascondiglio». «Stiamo rimediando a questa decisione», ha detto il segretario della Polizia militare.
Il pubblico ministero federale, tuttavia, ha aperto un’inchiesta, mentre il difensore pubblico di Rio ha avviato indagini per determinare se l’uso della forza da parte della polizia sia stato «proporzionato». Non a caso, secondo il procuratore della Commissione di diritti umani dell’Ordine degli avvocati del Brasile Rodrigo Mondego, vi sarebbero indizi di esecuzioni e torture: «Almeno una persona è stata torturata prima di venire uccisa».
Agli agenti di polizia è arrivato però il plauso di Bolsonaro: «Congratulazioni ai guerrieri del Bope e alla polizia militare di Rio de Janeiro che hanno neutralizzato almeno 20 delinquenti legati al traffico di droga».