Alcuni fanno pensare ai soldati perduti di Corto Maltese, altri si battono per riportare a casa chi amano, i più sono costretti a combattere per difendere il loro Paese, e la loro libertà, da un’invasione che vorrebbe annientare entrambi. Non c’è nulla di romantico nella guerra che raccontano i personaggi dell’ultimo romanzo di Tullio Avoledo (I cani della pioggia, pp. 376, euro 20, pubblicato nelle Farfalle di Marsilio), come non ve ne è traccia in alcuna guerra. Eppure, mescolando con l’abituale sapienza le dosi del noir e della fantasia narrativa, si ha l’impressione che lo scrittore friulano riesca nell’arduo obiettivo di attraversare un conflitto devastante come quello scaturito dall’invasione russa dell’Ucraina di due anni orsono – era il 24 febbraio del 2022 – con l’unico strumento letterario in grado di dare conto dei sentimenti umani e del loro agire dentro drammi che sovrastano di gran lunga la vita degli individui, che è l’avventura.

BENINTESO, qui non si gioca con la tragedia, né tantomeno con i ruoli, in esergo al libro c’è una dedica «a chi comunque e dovunque non si arrende», ma emerge la capacità di denunciare quanto sta accadendo nella forma e con gli strumenti che sono propri di un narratore sicuro del proprio incedere. Un percorso che, in questo caso, si compie in un mondo che ha assunto il profilo «dei sobborghi dell’inferno». Come nota uno dei protagonisti annusando l’aria di una delle zone della campagna ucraina dove i russi si sono ritirati da poco: «Non c’è solo un che di salmastro, in quell’aria. Ci sono anche odori più sgradevoli. Gasolio sversato. Fumo di incendi. Lezzo di morte».

A condurre il lettore dentro la guerra è la ricerca di una donna. Magda, una fotografa tedesca compagna di Marco Ferrari, uno dei protagonisti del romanzo, è stata rapita da una banda di paramilitari serbi soprannominati L’Ultima Crociata che si ispirano alle famigerate Tigri di Arkan, tra i gruppi nazionalisti responsabili di molti crimini sui civili durante le guerre nella ex Jugoslavia della prima metà degli anni Novanta, mentre realizzava un reportage lungo «il muro di Orbán» al confine tra Ungheria e Serbia. Quindi, i nuovi cetnici hanno deciso di prendere parte al conflitto in Ucraina, dapprima dalla parte dell’esercito di Putin, portandola con sé forse nella speranza di «venderla» ad altre simili bande.

Per ritrovarla, Marco si metterà in contatto con Sergio Stokar che si trova già in Ucraina dove non è chiaro se partecipi ad una sorta di Legione straniera di volontari che combattano a favore di Kiev o sia un vero e proprio mercenario. I due sono entrambi degli ex poliziotti, solo che mentre Marco si è trasferito in Germania e si è fatto una nuova vita come scrittore di romanzi polizieschi – le indagini veneziane dell’ispettore Gianni Venier -, Sergio è ancora invischiato nel «mestiere delle armi».

DIVERSI PER CARATTERE, per indole e mentalità – il primo ha testimoniato contro «i colleghi» responsabili di violenze sui fermati in un caso che ricorda molto quello della Diaz al G8 di Genova del 2001, l’altro non si è mai fatto scrupoli di «obbedire agli ordini» anche se sbagliati, sono già stati al centro, ma separatamente, di precedenti storie di Avoledo che ha scelto in questo caso non solo di farli incontrare, ma di metterli uno accanto all’altro in questa pericolosa «missione».

Ma se in gioco c’è la vita di una giovane donna, ostaggio di un gruppo di fascisti fanatici, del resto, riflette Sergio, in questa guerra è pieno di simboli e tatuaggi nazisti «da entrambe le parti», la cerca diverrà l’occasione per misurarsi con l’insensatezza e la crudeltà del conflitto. I due protagonisti dovranno raggiungere il fronte, superare una zona dove gli ucraini sono accerchiati dai russi e varcare le linee dell’esercito di Mosca per avvicinarsi al loro obiettivo. Dovranno combattere, calandosi nelle trincee come i fanti della Prima guerra mondiale o schivare i piccoli droni che dal cielo annunciano il carico di bombe in arrivo. Intorno a loro morte e desolazione, l’eco di torture e stupri, l’odore di carne bruciata che domina l’aria.

Ma anche la sensazione di poter dare un nome tutto sommato banale a questa guerra terribile e alle sue cause. «Secondo gli standard occidentali questo è un Paese in via di sviluppo, ma per un russo che non viva a Mosca o a San Pietroburgo è un paradiso terrestre», riflette Sergio, indicando a Marco come i vertici «nazionalbolscevichi» di Mosca abbiano aizzato il loro popolo impoverito e senza futuro ad «odiare altri poveracci come loro»: gli ucraini. Sulla via del ritorno, resterà la sensazione di aver attraversato un Paese in guerra «come cani nella pioggia» che camminano senza meta, nel nulla, senza una vera direzione, come recitano i versi di Rain Dogs di Tom Waits cui si ispira il titolo del romanzo. Finché si combatte, la redenzione è lontana.