Dove ha origine l’orrore? Perché una madre diventa una minaccia mortale per la figlia di tre anni? Quali peccati, ammesso che ne esistano, hanno commesso un marito, una moglie e la loro figlia per essere brutalmente accoltellati e uccisi nella loro abitazione in una tranquilla serata come tante altre? È possibile indagare e riuscire a risalire alla sorgente di un disagio individuale e di uno collettivo? Ed è altrettanto immaginabile trovare delle giustificazioni che permettano di distinguere tra chi agisce spinto quasi da un destino tragico (anche se sulla strada non ha incontrato le streghe di Macbeth a predirgli il futuro che non potrà aggirare) e chi, al contrario, senza alcun movente compie un gesto semplicemente feroce, né più né meno come quei cacciatori inquadrati da Ulrich Seidl in Safari, ma anche come quei visitatori di un campo di concentramento, agghiaccianti nel loro farsi un selfie con alle spalle la scritta Arbeit Macht Frei, intercettati da Sergei Loznitsa in Austerlitz?

Domande che non hanno alcuna finalità metafisica, suggestionate invece dalla visione di un film di genere e dall’osservare individui che scopriamo essersi mossi in una direzione, ma che avrebbero potuto prendere una strada alternativa, se solo i loro corpi, sentimenti, desideri li avessero spinti altrove. Tanaka è un reporter che si interessa a un caso di triplice omicidio avvenuto esattamente un anno prima e che è rimasto ancora senza colpevole. Forse è interessato a trovare la verità interrogando nuovamente i testimoni e gli amici/nemici delle vittime, probabilmente vuole solo tenersi occupato con qualcosa dopo che sua sorella Mitsuko è stata arrestata e rinchiusa in carcere per aver lasciato letteralmente morire di fame la figlia di tre anni.

È è il punto di partenza di Gukoroku – Traces of Sin dell’esordiente regista giapponese Kei Ishikawa, tre cortometraggi alle spalle e ora in concorso nella sezione Orizzonti. Due storie inizialmente separate che si moltiplicano e che poi tendono a riunirsi, per identificare malesseri e atrocità famigliari e sociali, dentro una casa, una scuola, un’università, un posto di lavoro.
Disegnato come un noir tra i più classici, con il progressivo sgretolamento di ogni personaggio e la difficoltà sem

re maggiore a definire la linea di demarcazione tra il bene e il male, tra il carnefice e la vittima, Gukoroku si trasforma anche in un’indagine sui cosiddetti conflitti di classe, su chi nasce o arriva con determinazione in un contesto sociale e impedisce ad altri di giungervi. E, di contro, su chi, vedendosi escluso, reagisce spargendo sangue. L’abilità di Kei Ishikawa è quella di aver costruito dentro il genere cinematografico una storia nella quale l’ambiguità non è al servizio della trama, ossia di un finale dove i misteri troveranno soluzione. Fosse stato così avremmo avuto a che fare con un esercizio di stile e null’altro.
Gukoroku ci pone di fronte a vecchi interrogativi ancora validi in Giappone come nel resto del mondo. Esibisce un’umanità persa in un labirinto da cui sembra impossibile uscire e dentro il quale i contatti si trasformano in atti di guerra.

E se è vero che si può certamente empatizzare con un paio di personaggi, questo avvicinamento potrebbe risultarci fatale, potremmo scoprire di esserci trovati dal lato sbagliato della storia.