Alle prime luci dell’alba di ieri, nella desolata via Affile alle porte di Roma, tra capannoni industriali che producono qui cioccolatini e lì cannoni da guerra, sono apparse quaranta persone inattese. A passo svelto e in silenzio hanno raggiunto il cancello di una delle fabbriche della zona, la Rheinmetall Italia Spa. Si sono incatenate all’ingresso e hanno srotolato uno striscione: «Stop armi alla Turchia. Embargo popolare». Firmato: «Rise up 4 Rojava».

«Da questo stabile nelle prossime ore partirà un cannone diretto verso la Turchia – hanno scritto gli attivisti in un volantino – È vergognoso che l’Italia continui a esportare armi che arrivano ad Ankara, legittimando e alimentando l’ignobile offensiva turca nel nord-est della Siria che ha già comportato la morte e il ferimento di centinaia di civili e la creazione di una vera e propria emergenza umanitaria con la messa in fuga di 300mila uomini, donne e bambini».

Dietro il cancello ci sono le officine in cui viene prodotta l’Oerlikon, una micidiale mitragliatrice capace di esplodere fino a 600 colpi al minuto. Lunga meno di tre metri e pesante 112 kg, può colpire un obiettivo a 2,5 km di distanza.

I giornalisti Annalisa Cuzzocrea e Fabio Tonacci hanno rivelato in un’inchiesta pubblicata la settimana scorsa su Repubblica che nel 2016 la Rheinmetall ha ricevuto un ordine di 12 cannoni dal regime di Erdogan. Il totale dell’affare ammonta a 2,5 milioni di euro. Nove unità sono già state consegnate, ne mancano tre.

L’azienda ha interesse ad accelerare il completamento della fornitura per evitare possibili stop derivanti dalla pressione internazionale contro la vendita di armi alla Turchia, andata crescendo dopo l’attacco al Rojava. In Italia il 16 ottobre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha firmato un atto che proibisce la stipula di nuove licenze.

Il divieto, però, non è retroattivo. «La posizione del governo italiano di porre un veto solo futuro è ipocrita, questi strumenti micidiali stanno andando via adesso e colpiranno la popolazione civile», dice Simone. È incatenato in mezzo agli altri e regge un cartello arancione che denuncia come le «armi made in Italy» finiscano nelle mani dei gruppi jihadisti alleati di Erdogan.

Gli attivisti hanno mantenuto il blocco per tutta la mattina, impedendo fisicamente il transito dei camion dall’unico varco di ingresso e uscita. Intanto sulle loro teste si è sollevato un sole tiepido, quasi primaverile, e intorno sono arrivati gli agenti della Digos a identificare tutti i presenti.

È stato diffuso un comunicato che invita le realtà solidali con il popolo curdo a ripetere segnalazioni e blocchi dei luoghi in cui sono prodotti gli strumenti di morte venduti alla Turchia: gli stabilimenti delle aziende Augusta Westland, Alenia Aermacchi (confluita nel 2015 in Finmeccanica) e Alenia. Sono diffusi in tutta Italia, da Varese a Frosinone, da Torino a Taranto, da Brindisi a Venezia.

«Chiediamo a lavoratori e alle lavoratrici della logistica e della produzione di svolgere un ruolo attivo nell’opposizione all’invio di macchine da guerra verso Ankara – dice il comunicato – Se il governo italiano non ha il coraggio di fermare l’esportazione, dimostriamo che esistono centinaia di uomini e donne pronti a realizzare un embargo popolare».

Nei mesi scorsi sono stati i camalli del porto di Genova a impedire il transito di armi. Erano dirette soprattutto in Yemen.