Nell’intervista di Arturo Scotto, sul manifesto di martedì, rispunta un luogo comune della sinistra moderata. «Dobbiamo essere partito di governo, altrimenti ci riduciamo ad un ruolo residuale di testimonianza». La penso all’opposto. Che cioè è stata l’ossessione del governo e la perdita della capacità di testimoniare con le storia delle persone e con le proprie azioni concrete la possibilità di un mondo diverso la causa della progressiva e inesorabile degenerazione della sinistra.

Lo disse con chiarezza già nel 2003 Bruno Trentin, quando di fronte allo svuotamento del progetto di società elaborato dai Ds sotto la sua direzione, denunciò con molta lucidità a quali esiti porta l’autonomia del politico e la priorità della governabilità. Da sempre giustificata come la necessità di sbarrare la strada alla destra o a qualche barbaro. «Si e’ venuta formando una cultura del trasformismo che identifica la politica con l’arte di adeguamento alle circostanze e con l’imperativo della governabilità, in presa diretta con la modernizzazione senza aggettivi…Una cultura che assume la capacità di adattamento mimetico della politica ai cambiamenti e alle opportunità non solo come una necessità ma come un valore; un indice appunto della sua modernità».

Trentin non sta parlando di Renzi, sta parlando di Massimo D’Alema. E anzi direi proprio che è questa priorità del governare e del vincere, costi quel che costi, l’eredità più grande che D’Alema lascia al renzismo. E quello che ha fatto sì che tanti dalemiani si siano schierati con Renzi. La rimessa in discussione di se stesso da parte dell’ultimo D’Alema non può limitarsi alla presa di distanza dal blairismo, questo l’ha fatto persino Orfini, ma deve andare al fondo di un modo di pensare e praticare la politica.

Contemporaneamente al crescere del primato della governabilità sparivano i testimoni. A partire dalle donne e degli uomini che avevano fatto la Resistenza e scritto la Costituzione. Quelli che col loro esempio avevano dimostrato in maniera inequivocabile, fino al carcere e al rischio della propria vita, la priorità dell’interesse collettivo su quello individuale. E che erano esempio per i giovani. Non è un caso che l’Anpi sia oggi l’organizzazione politica giovanile più grande del Paese. Formata da quei giovani che hanno avuto l’opportunità di guardare negli occhi e di ascoltare le parole di quelli che avevano combattuto contro il nazifascismo.

Esempi e testimonianze di vita che era sempre più difficile trovare nei politici delle generazioni che seguirono, fino a un oggi desolante in cui sempre più la politica dei politici appare come un investimento su se stessi e sul proprio futuro.

Oggi che a poco a poco spariscono quei testimoni dobbiamo trovare i modi di una nuova testimonianza. Nei gesti e nelle azioni della nostra vita. Saremo sempre più giudicati non per quello che diciamo, ma per quello che facciamo.

E’ quello che hanno capito Syriza e Podemos che sono cresciuti facendo mense popolari, medicina per i poveri, organizzando mutualismo, inventando un nuovo welfare dal basso. E che sono cresciuti così, testimoniando che era possibile vivere in maniera diversa dall’individualismo dominante, e trovando in questo persino il modo di essere più felici. Ed è quello che fanno in Italia in tanti, nei luoghi del lavoro e della vita, lontani dai riflettori della politica, che più che luce spesso diffondono buio.

Penso ad un partito che si pensi anche e soprattutto come una comunità di pratiche, che sappiano introdurre già oggi elementi di un nuovo mondo possibile nei luoghi di lavoro e nei quartieri, che testimonino quell’Utopia del quotidiano di cui parlava l’ultimo Trentin. E che sappia utilizzare tutte le frazioni di potere che riesce a strappare a livello istituzionale per far crescere le pratiche e i luoghi della vita buona.

Un’inversione di rotta radicale rispetto all’autonomia del politico e al primato della governabilità.