Già vincitore di due Pulitzer, il primo per una serie di articoli dedicati ai rischi ambientali e sanitari derivanti dagli allevamenti intensivi nella Carolina del Nord, il secondo per l’inchiesta sulla nascita dell’Isis, Bandiere nere, pubblicata anche nel nostro Paese da La nave di Teseo nel 2017 (e già recensita dal manifesto), Joby Warrick è da tempo uno dei reporter di punta del Washington Post.

ACCANTO all’estrema cura per le fonti e all’ampia documentazione su cui costruisce le proprie indagini, il lavoro del reporter si segnala, come accade spesso nel giornalismo statunitense, per l’intrigante forma narrativa che riesce ad assumere. Non fa eccezione Triplo gioco (La Nave di Teseo, pp. 412, euro 20, traduzione di Alberto Cristofori), una storia vera che si legge però come una spy story.
Sulla scorta dei materiali raccolti per Bandiere nere, dove accanto ad un esame del contesto che ha reso possibile la nascita dello Stato Islamico, dal ruolo degli americani in Iraq a quello delle monarchie del Golfo e della Turchia nell’area mediorientale, si prestava grande attenzione alle motivazioni personali e al contesto culturale nel quale ha preso forma l’adesione all’Isis, Warrick si concentra ancora una volta sul profilo degli adepti della jihad.

AL CENTRO DEI RIFLETTORI in questo caso c’è un giovane giordano «agganciato» dall’intelligence di Washington perché ritenuto una possibile pedina per giungere ai vertici dell’altra organizzazione terroristica islamista, per molti versi precorritrice dell’Isis, quella fondata da Osama bin Laden.

«Human al-Balawi era stato alla presenza dell’elusivo numero due di al-Qaida, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, uno dei perversi cervelli dietro a decine di piani terroristici, fra cui gli attacchi dell’11 settembre 2001. E adesso Balawi stava per portare la Cia proprio da Zawahiri», spiega Warrick nell’introdurre il personaggio chiave di questa vicenda. Le coordinate dell’affaire ci riportano diversi anni indietro nel tempo.Siamo nel pieno di quella che gli Stati Uniti hanno ribattezzato, non senza contraddizioni quanto alla propria responsabilità nell’intera vicenda, come «war on terror». Bin Laden è ancora il ricercato «numero uno» dell’amministrazione Obama, la rivolta islamica sunnita già diretta da al-Zarqawi si va trasformando nel primo nucleo del futuro Stato islamico iracheno sotto la guida di al-Baghdadi, quando alla sede della Cia di Langley cominciano ad arrivare informazioni giudicate molto interessanti dall’Afghanistan.

GLI AGENTI DELL’AGENZIA che operano sul terreno sono entrati in contatto con un membro di al-Qaeda che si dice pronto ad indicare i luoghi nei quali si nascondono i vertici del gruppo responsabile dell’attacco a New York dell’11 settembre del 2001, al-Zawahiri e, forse, lo stesso Bin Laden.

Quello che Warrick documenta passo dopo passo, con grande meticolosità e altrettanta attenzione al profilo dei diversi protagonisti, del circuito jihadista come e soprattutto del campo avverso, si rivelerà però uno dei più tragici fiaschi della storia della Cia. La vicenda, che si apre nel 2006 per concludersi tragicamente tre anni più tardi, vedrà infatti l’intelligence vittima del proprio stesso desiderio di poter contare su di un infiltrato nella «cupola» del terrore.

DOPO LUNGHE TRATTATIVE gestite tra gli altri da Jennifer Matthews, una delle responsabili americane per la caccia agli jihadisti – uomini e donne di cui Warrick ricostruisce il percorso e delinea il ritratto -, il 30 dicembre del 2009, incontrando gli inviati della Cia a Khost, in Afghanistan, Human al-Balawi si farà esplodere azionando una carica di 13 chili di esplosivo che uccideranno sul colpo anche sette tra i migliori agenti dello spionaggio americano. Non stava facendo il «doppio gioco» a favore di Washington, bensì si fingeva infiltrato in al-Qaeda per poter arrivare a colpire i vertici operativi della Cia sul campo.