Il discorso di apertura di Next, un programma del Marché di Cannes sul futuro dell’industria dello spettacolo, quest’anno è stato affidato al responsabile dei contenuti di Netflix, Ted Sarandos. Non ci sono serie televisive nel programma del festival ma la scelta di Sarandos non è casuale: non solo Netflix ha appena realizzato il primo lungometraggio di sua produzione (Beasts of No Nation, diretto dal regista di True Detective Cary Joji Fukunaga), l’intera strategia con cui la piattaforma streaming sta contribuendo a rivoluzionare la fruizione e la circolazione di entertainment ha veramente decollato quando Sarandos ha cominciato a puntare su contenuti originali; sotto forma di serie di altissima qualità come House of Cards o Orange Is the New Black.

Si parla frequentemente di un’odierna Golden Age, un’età dell’oro della tv americana. Era definita così anche un’altra fase particolarmente creativa della sua storia, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’60 quando a un pool di grandi scrittori (Gore Vidal, Paddy Chayefsky, Rod Serling, Horton Foote…) e registi (Arhtur Penn, John Frankehneimer, Sidney Lumet, Robert Altman..) fu concesso di portare autorialità e sperimentazione a un mezzo nato da poco e che aveva bisogno di definirsi. Come allora, anche questo è un momento di evoluzione e di grandissima creatività – analogamente a Hbo e alle altre reti cavo a pagamento, piattaforme come Netflix, Amazon tv o Hulu, non basano le loro scelte sui rating e non dipendono dagli inserzionisti. In alcuni casi (Amazon, il più clamoroso) lo spettacolo è una parte minima del loro business. Il loro unico modo per attirare pubblico è la qualità del prodotto (che sta alzando anche quella dei network). Affidando le sue serie tv ad autori come Whit Stillmann, Garry Trudeau, David Gordon Green, Roman Coppola, Alex Gibney e persino Woody Allen, le produzioni originali di Amazon si sono per esempio allineate con l’immaginario e l’estetica del cinema indipendente Usa, assorbendone molti degli autori e attori, che si dicono entusiasti dell’esperienza.

L’altro grande asset di questa seconda Golden Age è la diversificazione del prodotto: liberata dalla schiavitù di dover pensare a un pubblico di massa, come quello che si raccoglieva di fronte ai salotti e alle cucine delle sitcom, le nuove serie sono un mosaico infinito di realtà diverse, che spazia tra i generi, le sottoculture, l’immaginario, la politica e la storia. Quasi una proposta alternativa di «documentario» , un puzzle che si offre come specchio e funzione critica delle realtà che ci circonda e uno spaccato sociologico degli States in cui trovano posto bellissime (re) visioni del passato, come Mad Men, Sopranos, Masters of Sex, o Man(h)attan (sul making of della bomba atomica), feroci satire sulla politica (House of Cards, Scandal, Veep…) un’imitazione di Dallas ambientata in Medio Oriente (Tyrant, su Fx), una ambientata sullo sfondo dell’attuale boom del petrolio in North Dakota (Boom, su Abc) e un’altra a Key West (Bloodline, su Netflix), sanguinosi drammi di confine (The Border, su Fx) e la storia di un architetto californiano sui 60 che decide di cambiare sesso e la cui realtà famigliare include una figlia etero che diventa gay, almeno un aborto, allucinogeni vari, battute caustiche che non risparmiano l’Olocausto e flash back in un campeggio comunità anni ’70 per uomini che amano vestirsi da donna (è Transparent, su Amazon Tv e che ricorda America oggi di Altman).

Porosissime e pensate sulla base di tempi di produzione più raipidi, le nuove serie sono in continua dialettica con l’attualità. In tempi strettissimi, hanno già (ri) messo in scena il razzismo della polizia (The Good Wife), la tortura (Madame Secretary, Homeland, 24…) e l’accordo con l’Iran (di nuovo Madame Secretary), le nefandezze di un gruppo di senatori repubblicani (Alpha House) e una donna alla Casa bianca (Veep).

Spesso con più intelligenza, acume politico, rispetto per il pubblico e complessità di un tg.