Il rapporto tra il sistema politico e la giurisdizione non è mai stato lineare. La funzione di controllo della legalità dell’azione amministrativa determina inevitabilmente una frizione rispetto ai suoi destinatari che vedono limitato – e in taluni casi inibito – l’esercizio del potere da un intervento esterno. E’ il prodotto della divisione dei poteri, che appartiene fisiologicamente all’assetto democratico e liberale del tessuto istituzionale.

La torsione di questo rapporto dopo il 1994, a seguito di Mani pulite, con l’irrompere delle decisioni della magistratura penale nello scenario, e il travolgimento dell’assetto dei partiti su cui si era fondato per mezzo secolo l’equilibrio di governo, non ha modificato il significato profondo di questa relazione. Certo il conflitto si è inasprito, è divenuto sistemico e non più episodico: durante il ventennio berlusconiano pur scontando gli effetti personalizzati, a tratti caricaturali, di alcune incriminazioni e corrispondenti approvazioni di norme ad personam per immunizzarne gli effetti, il gioco di questi equilibri è rimasto pressoché intatto. Anzi l’autonomia della giurisdizione ha subito un drastico rafforzamento, accompagnato da un incremento sempre più marcato di poteri rispetto a fenomeni di criminalità organizzata che una produzione normativa affluente ha generato, con una tendenza a espandersi ben al di là del recinto che ne giustificava l’introduzione.

La situazione è oggi cambiata. Il segno propositivo del governo che ci tocca in sorte, all’insegna dell’aumento delle pene e del carcere come strumento privilegiato di controllo sociale, dai reati di strada alla corruzione, è stato tutto, ma solo apparentemente, all’insegna di un aumento di questo potere. In realtà il veleno illiberale che già si manifesta in queste scelte, che abbandonano ogni rispetto dei principi costituzionali di equilibrio e di proporzione nella materia penale, è destinato a espandersi incidendo in modo ben più pericoloso sull’autonomia stessa del giudiziario.

Lo svela il ministro degli Interni.
I suoi interventi, anche scontando la volgarità che spesso connota toni e modi delle sue parole, negano in radice la stessa ragion d’essere della funzione di controllo, contestandone direttamente la legittimazione.

Ciò accade in tutti i casi sui quali fino ad oggi ha posto la sua attenzione politica, dalla gestione del fenomeno migratorio alla legittima difesa.
Le Ong sono il bersaglio privilegiato del suo attacco, fino a rasentare il ridicolo, se in una materia tragica come questa ci fosse permesso il sorriso. Truci ordinanze, redatte da qualche burocrate digiuno di studi di diritto internazionale umanitario, attribuiscono a una barca carica di 50 migranti salvati da un naufragio il ruolo di essere protagonista di un’aggressione alla sicurezza pubblica. Così il ministro – è accaduto più volte con Sea Watch e con Mediterranea – anticipa l’arresto dei protagonisti e il sequestro della nave precorrendo le scelte dell’autorità giudiziaria. Non a caso accompagna l’invocazione a una sistematica aggressione: Achtung Banditi ! E’ il motto costante dei suoi comunicati, le navi delle Ong sono fuorilegge che vagano nei nostri mari.

La parola del ministro svuota di contenuto il controllo di legalità successivo, anzi lo addita necessariamente agli occhi del suo mondo come complice quando la magistratura inquirente ribadisce la liceità dell’accaduto.
L’obiettivo è dunque molto più ambizioso della polemica con l’una o l’altra delle Procure coinvolte nelle scelte, investe in radice la stessa ragione dell’intervento della funzione giudiziaria. Non sono più i media che anticipano il verdetto, ma il ministro che lo emette, svuotando il contenuto e la legittimazione delle sedi deputate ad emetterlo.
Non a caso il nuovo decreto sicurezza accentra su di sé l’iniziativa spostando le sanzioni sul versante amministrativo e contando così sulla subordinazione dei prefetti e sul carattere più macchinoso del controllo di legalità del giudice amministrativo.

Lo stesso copione si è riprodotto, con una polemica diretta nel caso sui (numerosi) giudici civili che hanno emesso i provvedimenti che autorizzano l’iscrizione anagrafica dei migranti: «il giudice fa politica, si candidi», «applicare le leggi, non interpretarle». Due frasi, tra loro coerenti, perché volte a negare la stessa esistenza del controllo giurisdizionale, in nome di una sovranità popolare assorbente ed esaustiva. Non stupisca dunque il carattere apparentemente rozzo e ingenuo delle proposizioni, perché l’obiettivo è chiaro, scrollarsi di dosso un controllo giurisdizionale che incide sulle sue scelte politiche.
Una scelta consapevole degli esecutivi, che connota e non da oggi i sistemi di democrazia illiberale, dalla Turchia di Erdogan, alla Polonia di Kaczynski all’Ungheria di Orban.

Del resto chi abbia prestato attenzione allo sviluppo simbolico di un tema come quello sulla riforma della legittima difesa ritrova gli stessi archetipi del pensiero ministeriale.
Come è stato da molti rilevato, tutto il dibattito sulla legittima difesa si è incentrato non sulla necessità di una riforma della causa di giustificazione prevista dal codice penale, già peraltro oggetto di modifiche da parte del governo di centro destra nel 2006, visto che la verifica concreta permetteva di accertare che non esistevano, né venivano indicati, precedenti di persone perseguite ingiustamente mentre difendevano la loro casa e la loro incolumità, ma sull’insofferenza rispetto all’accertamento giurisdizionale conseguente.
Lo slogan sul quale la riforma è stata propagandata, «la difesa è sempre legittima», nasconde proprio l’assunto per il quale l’intervento giudiziario è un’appendice, destinata, se mai, alla verifica notarile delle ragioni dell’aggredito.

Così il ministro si affretta a esprimere solidarietà a chi abbia sparato al ladro uccidendolo, prima ancora di sapere i termini dell’accaduto e, si noti, senza mai rimandare a un accertamento del pubblico ministero prima e del giudice poi.
Li ignora e anzi nega comunque che gli sviluppi possano incidere sulle sue dichiarazioni: la solidarietà all’aggredito non conosce ostacoli anche quando si affaccia timidamente l’ipotesi di un colpo di pistola sparate alle spalle dall’alto di un balcone al ladro in fuga disarmato e dunque di una vendetta e non di una difesa, sia pur motivata dalla rabbia di un’aggressione ingiusta al suo patrimonio e al suo lavoro. Nessuna considerazione sull’equilibrio dei beni in gioco, sulla tutela della vita: individuato il ladro come un nemico è comunque privo di diritti compreso quello supremo alla propria esistenza.
Siamo di fronte dunque a un salto di qualità rispetto al conflitto tradizionale che oppone controllanti e controllati, la funzione giurisdizionale alla funzione politica e amministrativa, giudiziario ed esecutivo.

Il ministro indica una scorciatoia, si scrolla di dosso ogni scrupolo istituzionale perché ciò che conta è l’obiettivo che gli garantisce ulteriore legittimazione agli occhi di un popolo abbagliato da poche e plaudenti parole, prive delle complicatezze che ineriscono inevitabilmente agli accertamenti giudiziari.
Anche la scelta di non farsi processare sul caso Diciotti, assecondata dalla maggioranza, risponde alla stessa logica. Non è frutto di un timore per l’esito, ma della volontà di non riconoscere la legittimità del provvedimento del Tribunale di Catania.
E così l’onestà, onestà sulla quale il popolo 5 stelle ha costruito le sue fortune su un affidamento cieco al potere giudiziario, indicato come concludente e arbitro di ogni carriera politica fin dall’incipit del suo intervento, si è trasformato nel via libera allo svuotamento di quel potere. La coerenza illiberale e populista del tratto riformatore accomuna dunque i protagonisti della nuova stagione e lascia intendere che, ben aldilà di singoli episodi che ho richiamato, la battaglia per conservare al nostro sistema un tratto riconoscibile nell’ambito delle democrazie liberali è appena iniziata.