Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan a Granada prova a tessere alleanze mentre la situazione nel Caucaso del sud continua ad evolversi inaspettatamente. Di ieri la notizia che il contingente di pace russo presente in Nagorno-Karabakh dalla fine della guerra del 2020 si ritirerà interamente entro il 1° novembre. Il presidente Putin, inoltre, ha finalmente preso parola sulla crisi, accusando l’Armenia di aver rifiutato una soluzione pacifica nella regione contesa con l’Azerbaigian.

«Per 15 anni abbiamo proposto all’Armenia di scendere a compromessi e di restituire all’Azerbaigian 5 distretti del Nagorno-Karabakh e di tenerne due, ma Erevan ha sempre rifiutato» ha dichiarato il presidente russo. «Ora leggo sulla stampa – continua – che l’Armenia riconosce ufficialmente il Nagorno-Karabakh come parte dell’Azerbaigian dopo aver occupato il 20% dei suoi territori per 30 anni».

Strano sentire il capo del Cremlino insistere su questioni di diritto internazionale. Meno insolito sentire accuse al premier Pashinyan. Dai media russi il primo ministro è considerato un «servo dell’Occidente», un «traditore», uno che sta trasformando il suo Paese in una «colonia della Nato». In Armenia molto spesso si sentono le stesse affermazioni ingiuriose, con i dovuti distinguo, contro la Russia. I due paesi vivono una profonda crisi che si sta palesando a partire dai rapporti commerciali. La frontiera di Lars, in Georgia, che fino alla settimana fa era il punto di transito (quasi senza controlli) per gli scambi via terra tra Armenia e Russia, ora è una lunga fila di camion in attesa del via libera dei controlli doganali.

Si profila, dunque, una modifica sostanziale e rapida dei trattati di libero scambio. Cosa che in un momento di crisi economica non è un bene per le casse della fragile Armenia. Per ora la Banca centrale è dovuta intervenire per fermare l’inflazione fissando il cambio del dollaro con il Dram a 410.