Il caso Punta Perotti di Bari torna agli onori della cronaca a distanza di anni. A riportare in auge la storia di un caso unico in Italia, è stata la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, che ieri con una sentenza non appellabile, ha stabilito che le autorità italiane non avrebbero dovuto procedere alla confisca dei terreni per costruzione abusiva senza una previa condanna dei responsabili.

Per i giudici le autorità italiane hanno violato il diritto al rispetto della proprietà privata. Il che lascia quanto meno perplessi, perché al di là della sentenza in sé, considerare la proprietà privata (peraltro su un suolo pubblico) un diritto quasi alla stregua di quelli umani, sembra riportarci indietro di secoli nella storia del diritto.

Nella sentenza di ieri, comunque, la Corte di Strasburgo ha definito la misura di confisca attuata nei confronti di quattro società (Giem Srl, Hotel Promotion Bureau Srl, Rita Sarda Srl e Falgest Srl) e una persona (Filippo Gironda) come «sproporzionata», riservandosi di decidere sull’ammontare del risarcimento, avendo concesso tre mesi, al governo e ai ricorrenti, per trovare un accordo sulla cifra.
Secondo la Corte, le autorità italiane hanno commesso nei confronti dei ricorrenti una serie di violazioni. In particolare, le quattro società a responsabilità limitata, «non sono mai state imputate in alcun processo sul reato di abusivismo» in quanto la legge in vigore non lo consentiva in base al principio «societas delinquere non potest». Secondo la Corte i fatti contraddirebbero peraltro la tesi secondo la quale le confische ebbero «un contributo alla protezione dell’ambiente», l’obiettivo dello Stato italiano. Infine da Strasburgo osservano che l’applicazione automatica della confisca in caso di abusivismo prevista dalla legge italiana «è chiaramente inadatta perché non permette ai tribunali di definire gli strumenti più appropriati in relazione alle circostanze specifiche del caso». In pratica, l’assunto che sta alla base della sentenza, è che i terreni di proprietà delle società baresi, furono confiscati senza che le aziende e i loro legali rappresentanti fossero stati mai processati.

Come detto, il caso ha vissuto diversi capitoli. La vicenda iniziò nel lontano 1995 con l’edificazione del complesso, composto da tre torri di trecentomila metri cubi di cemento innalzate sul lungomare sud di Bari. Nel 1997 arrivò il sequestro preventivo della Procura di Bari, poi annullato dalla Cassazione perché l’area non risultava vincolata.
Il processo terminò nel 2001: la Cassazione confermò l’assoluzione degli imputati, ma ripristinò la confisca precedentemente annullata in appello. Contro questo provvedimento arrivò il primo ricorso alla Corte europea. Intanto, in tre fasi diverse il 2, 23 e 24 aprile del 2006, su disposizione dell’allora sindaco Michele Emiliano, attuale governatore della Puglia, i palazzi furono abbattuti con cariche esplosive con la demolizione che già all’epoca suscitò molte polemiche. Al posto del complesso edilizio sorse un parco, mentre le imprese nel novembre 2010 riottennero i terreni.

Le aziende presentarono così ricorso a Strasburgo contro la confisca dell’immobile, avvenuta senza una sentenza di condanna, con i costruttori che nel frattempo furono assolti nel processo penale perché in possesso di tutte le autorizzazioni rilasciate dal Comune di Bari. Il 10 maggio del 2012 Strasburgo condannò l’Italia a risarcire le imprese che realizzarono il complesso edilizio (Sud Fondi, Mabar e Iema) con 49 milioni di euro. La Corte europea, sollecitò un accordo tra Stato e aziende, ma in assenza di un’intesa dispose il pagamento: una cifra peraltro molto inferiore alle richieste, che pretendevano un risarcimento da 570 milioni di euro. A quel punto lo Stato, dopo la condanna di risarcimento, esercitò il diritto di rivalsa e presentò al Comune di Bari un conto da 46 milioni e 80 mila euro: in una nota di Palazzo Chigi trasmessa al comune un anno fa, si invitava l’ente a saldare l’importo a rate. Ma la giunta barese decise di fare causa allo Stato.
Uno dei protagonisti della vicenda, il governatore pugliese Emiliano, ha definito la sentenza «corretta». I terreni andavano restituiti: a differenza della confisca, la demolizione degli edifici era ed è legittima, come da sentenza del 2012. «Chiunque non avesse demolito sarebbe stato condannato. Non si può invece – ha detto Emiliano – espropriare qualcuno del diritto di proprietà senza una condanna».