Secondo giorno di calma in Iran, dopo una settimana di proteste che hanno attraversato il paese da est a ovest. Ieri il ministero degli interni, ha dato qualche numero: 42mila i manifestanti, bilancio «basato su statistiche precise». Un numero probabilmente al ribasso, come quello degli arrestati: Teheran ne conta 700, i manifestanti oltre mille, per lo più chiusi dietro le sbarre della famigerata prigione di Evin.

Secondo alcuni post pubblicati nei social network, mercoledì notte si sarebbero tenute nuove sporadiche proteste ma nessuno conferma. Sono invece ritornati in piazza ieri a Isfahan, Ardebil e Mashhad, epicentro della contestazione, i sostenitori del governo. Che da parte sua prova a gestire la crisi mostrandosi aperto all’ascolto (dopotutto buona parte delle richieste della piazza rispecchiano il programma elettorale del presidente Rouhani) e intenzionato ad evitare un’escalation decidendo di non inviare per le strade le élite militari delle Guardie Rivoluzionarie, le Basij.

E, sebbene le proteste si siano dimostrate acefale, senza una leadership, Teheran sfrutta a modo suo l’arrembaggio lanciato dal presidente statunitense Trump che da giorni invita «il popolo iraniano» – come fosse un’entità monolitica – a far cadere la Repubblica Islamica. Ieri il procuratore generale Montazeri ha accusato la Cia di essere l’ideatrice delle proteste, organizzate nel corso degli ultimi quattro anni, con il sostegno israeliano e saudita, dall’ex 007 Michael Andrea.

Ma al di là degli scenari esterni, Rouhani è consapevole di dover intervenire, soprattutto in vista del 13 gennaio, quando Trump probabilmente, per la seconda volta consecutiva, non certificherà l’accordo sul nucleare. Un colpo duro alle riforme desiderate da Rouhani quanto dalle migliaia di persone scese in piazza dal 28 dicembre.