Il piano di privatizzazioni del ministro Giorgetti e delle presidente Meloni è miope, mette a rischio la possibilità per il governo di intervenire in settori strategici, potrebbe deteriorare la qualità delle infrastrutture e aumentare i costi dei servizi per i cittadini.

Alla base del piano non c’è un’idea di politica industriale. Alla narrativa tanto in voga negli anni 90 secondo cui le privatizzazioni migliorano la gestione delle aziende pubbliche non crede più nessuno.

L’unica linea guida è quella di fare cassa immediatamente, cercando di racimolare qualche spicciolo – venti miliardi in tre anni, secondo gli annunci del governo, ossia meno di una finanziaria – svendendo i gioielli di famiglia. Poste, Eni, Fs, Raiway, Mps: sono pochi i settori che si salvano dalla smania di monetizzare.

Si rinuncia per sempre a flussi annuali di miliardi di euro di dividendi: solo da Eni il governo ha incassato un miliardo all’anno tra il 2021 e il 2023.

È un piano di corto periodo, quindi. Ma è anche un piano che mette a rischio la tanto importante – a parole – sovranità nazionale.

Il pasticcio fatto con Enel Green Power è sotto gli occhi di tutti.

La partecipazione pubblica nel capitale del gruppo elettrico è stata talmente diluita che nell’assemblea del 2022 è stato sventato per il rotto della cuffia il rischio che i fondi di investimento imponessero un loro cda alternativo a quello proposto dal Mef. Pericolo che è sempre dietro l’angolo e potrebbe riprodursi in seguito alle privatizzazioni degli altri colossi. Si rischia di cedere il potere decisionale sulla transizione energetica, sul suo finanziamento e la sua gestione, nel momento in cui questi temi sono di primario interesse nazionale.

È inoltre un piano pericoloso per le infrastrutture. Meloni vuole fare entrare investitori privati non solo in Trenitalia, il gestore dei treni, ma direttamente nella capogruppo Fs. Si tratterebbe quindi di privatizzare – almeno in parte – la rete ferroviaria creata con investimenti pubblici e preziosissima sia dal punto di vista strategico che da quello finanziario.

Fs possiede anche la rete stradale di Anas. Quando si tratterà di effettuare investimenti su queste due reti per ammodernarle, per metterle a norma, per combatterne la normale usura, non si potrà più attingere come oggi a fondi pubblici. Bisognerà utilizzare fondi privati, che bisognerà poi in qualche modo remunerare. Come? Scaricandone i costi sui biglietti dei treni.

Infine, la privatizzazione di Fs è un primo passo – nemmeno troppo nascosto – verso una futura separazione della rete dalla gestione delle linee. Si tratterebbe se confermato di un passo dettato da un’ideologia – questa sì – sconfitta dalla storia.

Il caso inglese, la privatizzazione del ’93, è emblematico. Separare l’infrastruttura dal funzionamento ha portato a conseguenze catastrofiche. I treni inglesi sono perennemente in ritardo, caratterizzati da biglietti estremamente costosi e sulla linea gli incidenti – con gravi ripercussioni sui lavoratori – sono all’ordine del giorno.

Per raccattare poco oggi e comprarsi il favore elettorale delle categorie a cui abbasseranno le tasse, Giorgetti e Meloni regalano ai fondi d’investimento stranieri flussi di cassa per i prossimi decenni, mettono a rischio le infrastrutture nazionali in settori delicatissimi e strategici: energia, trasporti e risparmio.