Il governo Meloni ci regala una nuova prima assoluta nella storia repubblicana: è iniziato l’esame parlamentare di un suo disegno di legge di riforma costituzionale – quello sul premierato – ma ad essere preferito dalla presidente Meloni non è il suo testo, bensì quello di un gruppo d’opposizione, addirittura dell’odiato Renzi.

Ma andiamo con ordine. Il ddl Casellati ha iniziato il suo iter parlamentare ieri mattina in Commissione Affari costituzionali del Senato, con la sua illustrazione da parte del relatore Alberto Balboni (Fdi), che è anche presidente della Commissione. Seguiranno audizioni nelle prossime settimane (si inizia martedì prossimo), poi discussione generale, emendamenti, e via dicendo.

Ma al ddl del governo ne è stato abbinato un altro, presentato in precedenza a Palazzo Madama da Matteo Renzi e dai suoi senatori: si tratta del famoso “sindaco d’Italia”, che prevede anch’esso l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Un abbinamento imposto dal regolamento, visto che entrambe i testi riguardano gli stessi articoli della Costituzione.

Fin qui nulla di straordinario. Il punto riguarda i passaggi successivi, visto che i regolamenti imporranno l’adozione di un testo base, che di prassi è quello del governo, testo base su cui i senatori potranno presentare i propri emendamenti. E qui inizia il paradosso, perché ad avvicinarsi di più ai desiderata di Giorgia Meloni è il ddl Renzi, secondo quanto la stessa presidente del Consiglio disse il 3 novembre scorso in conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri che approvò la riforma.

Il ddl Renzi contiene infatti un primo elemento che il ddl Casellati non ha e che tuttavia Meloni, il 3 novembre, disse di preferire «a titolo personale». Si tratta del principio “simul stabunt, simul cadent”, vale a dire che se il premier eletto dovesse cadere perché sfiduciato, si tornerebbe alle urne. È un principio, in vero, coerente con le elezioni dirette, basti pensare alla Francia, oltre che ai nostri sindaci.

Nel testo Casellati si è preferito prevedere la possibilità di un cambio in corsa del premier eletto con un altro parlamentare della sua maggioranza (ma che a sua volta può essere sostenuto da una maggioranza diversa da quella delle urne). Ieri Casellati ha nuovamente detto che questa scelta pasticciata era dovuto alla volontà di non incidere sulle prerogative del presidente della Repubblica; una foglia di fico per nascondere la verità, e cioè il veto di Fi e Lega sul “simul stabunt, simul cadent”. E in più il ddl Renzi attribuisce al premier eletto altri poteri come quello di nomina e revoca dei ministri.

La ministra Casellati ieri ai giornalisti che la interpellavano ha replicato che «il Parlamento è sovrano» e in quella sede si deciderà. Tuttavia prima o poi il governo dovrà sciogliere il nodo di fondo: accettare – almeno in sede di emendamenti – le proposte di Renzi sperando di allargare la maggioranza di governo sulla riforma (sempre che ciò non spacchi il centrodestra), ritrovandosi però a fare la battaglia referendaria a fianco dell’odiato Renzi; oppure respingere le proposte di Iv e approvare il premierato con la sola maggioranza di governo, affrontando il referendum con lo schema “Meloni contro il resto del mondo”. Uno schema che nel 2016 non portò fortuna a Renzi.