Quando all’istituto «Spallanzani» di Roma fu isolato il Covid-19 per la prima volta, i riflettori si accesero sui veri (anzi, sulle vere) responsabili di quella scoperta. A mettere le mani sul virus era stata Francesca Colavita, una ricercatrice precaria che, anche grazie a quel risultato, ottenne poi la stabilizzazione del suo contratto di lavoro.

Di ricercatori come Colavita in questi anni c’è stato un gran bisogno. La pandemia non si combatte solo in corsia: negli ospedali si analizzano i tamponi, si lavora al microscopio, si mettono a punto strumenti diagnostici, si sviluppano nuove terapie: tutte mansioni demandate in gran parte ai ricercatori precari della sanità che lavorano negli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (Irccs) e negli Istituti Zooprofilattici Sperimentali (Ifs). Sono i centri di eccellenza riconosciuti e finanziati da parte del ministero della salute, come lo stesso «Spallanzani».

Eppure, mentre il governo ha avviato – solo avviato – una stabilizzazione straordinaria dei sanitari impegnati nella lotta al Covid e assunti a tempo determinato, si è «dimenticato» della ricerca.

«Son rimasti fuori 1290 ricercatori della sanità, con una media di precariato alle spalle di oltre dieci anni ciascuno», spiega Antonio Vadalà, uno dei membri dell’Associazione dei Ricercatori in Sanita Italia (Arsi). «Siamo stati esclusi da tutti i provvedimenti straordinari decisi durante il periodo pandemico» racconta «e stiamo chiedendo al governo di inserire la nostra stabilizzazione nella prossima legge finanziaria». Altrimenti? «Altrimenti la fuga dalla ricerca pubblica in sanità continuerà».

Non è una minaccia ipotetica. Nel 2019, i precari in servizio che oggi avrebbero diritto a una stabilizzazione erano 1800, e quasi un terzo ha già cambiato strada professionale. Si tratta di ricercatori formati a spese dello Stato e che lavoravano per la sanità pubblica, ma che oggi hanno portato altrove, all’estero o nel privato, le loro preziose competenze.

«All’epoca, visto che il Jobs Act impedisce di reiterare i vari contratti atipici con cui eravamo impiegati, il governo introdusse la “piramide della ricerca”, un contratto quinquennale rinnovabile una volta sulla base di requisiti in termini di pubblicazioni scientifiche che non sono richiesti nemmeno ai ricercatori già strutturati».

La «piramide» si è rivelata un percorso a ostacoli senza sbocchi. Secondo la maledetta regola del «publish or perish», chi non pubblica abbastanza viene sbattuto fuori. Ma chi sopravvive, dopo dieci anni di ricerca di eccellenza non acquisisce alcuna garanzia. Chi può permettersi una simile «carriera», dopo dieci o vent’anni di precariato già accumulati? «Tra di noi ci sono ricercatori che probabilmente arriveranno da precari alla pensione», racconta Vadalà.

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Il 28 giugno, dopo una partecipata manifestazione e con il sostegno della Fp Cgil, l’Arsi ha ottenuto l’impegno del governo a mettere mano alla situazione dei precari della sanità. Oltre alla prossima finanziaria, l’occasione è offerta dalla legge delega di riordino degli Irccs, già approvata alla Camera e in discussione al Senato.

Anche questa strada appare accidentata. Nonostante la buona volontà dichiarata da tutte le forze politiche, gli emendamenti alla legge che puntavano a subordinare il riconoscimento degli Irccs alla loro dotazione organica, e dunque all’assunzione dei precari, sono stati misteriosamente ritirati.

Senza questi provvedimenti – fanno sapere i precari – non rimane che bloccare l’attività di ricerca e ricorrere alle vie legali, come già fatto in passato. Molti giudici hanno dato loro ragione, ma è una magra consolazione, perché i «soldi pubblici andrebbero a pagare rimborsi per abusi contrattuali piuttosto che essere investiti nella valorizzazione del personale».