Sul decreto sulle liste di attesa nella sanità sta avvenendo un doppio scontro: quello delle regioni che hanno bocciato l’altro ieri (Il Manifesto 12 luglio) il testo arenato in commissione Affari sociali alla Camera perché lede le loro competenze costituzionali e quello su un assaggio dell’autonomia differenziata sulla sanità contro il governo che ha spinto la Lega a presentare un emendamento che cancella il contestato articolo 2 del provvedimento.

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Gli aspiranti presidenti degli staterelli-regione non accettano che le «loro» aziende sanitarie siano controllate dal ministero che svolge anche il ruolo di polizia giudiziaria. In prospettiva vogliono anche avocare a sé l’intera gestione di un settore che già oggi costituisce una parte sostanziale del loro bilancio. Per queste ragioni ieri sono intervenuti i pesi massimi dei presidenti leghisti, quello friulano Massimiliano Fedriga che è anche presidente della Conferenza Stato-Regioni, e il presidente veneto Luca Zaia.

Il messaggio, nemmeno troppo nascosto, è stato inviato ai Fratelli d’Italia che sono il primo partito della maggioranza. Per loro l’articolo contestato va «riformulato».

«Abbiamo proposto – ha detto Fedriga – di formulare un emendamento che crei nuclei di controllo e valutazione all’interno delle singole Regioni» e che preveda che «a sua volta il ministero controlli le Regioni sul raggiungimento degli obiettivi e delle verifiche. Combattere le liste d’attesa: è una priorità delle Regioni e non solo del governo e ci auguriamo che nella conversione del decreto si possa giungere a un’intesa».

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«La verità – ha aggiunto Zaia – è che l’articolo 2 mette in discussione tutto l’impianto del tema delle competenze. Se chiedessimo ai veneti piuttosto che ai campani o ai residenti in altre regioni se vogliono avere una sanità gestita da Roma o dal loro presidente direttamente eletto tutti direbbero che preferiscono la gestione regionale. Quindi questo è rispettare la volontà dei cittadini». Il decreto è nato per dare una risposta populista ed elettorale (è stato presentato prima delle europee) a un problema strutturale connesso al sotto-finanziamento del sistema sanitario nazionale. Non è pensabile affrontare la disperante realtà delle liste di attesa senza intervenire contemporaneamente sulla mancanza di posti letto e di sale operatorie, sulla carenza di personale medico e infermieristico. Cosa che non è avvenuta. Inoltre il decreto prevede di usare i soldi pubblici per favorire un maggiore ricorso alla sanità privata. Questo è già stato deciso da molte regioni che vanno in ordine sparso.

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Le regioni in maggioranza di destra (tranne una: il Lazio, prova della spaccatura nella maggioranza) hanno contestato al governo la mancanza di finanziamenti supplementari al fondo sanitario nazionale già insufficiente. Manca inoltre un piano assunzionale del personale mancante e un serio progetto di investimenti per un rafforzamento dei servizi. Cioè tutto.

«L’aspetto più grave è la parificazione delle strutture sanitarie private a quelle pubbliche: un testo scritto male e di fretta segnerebbe la fine del servizio sanitario nazionale, ci sono diversi buoni motivi per ritirarlo – ha osservato Luana Zanella (Alleanza Verdi e Sinistra) – Zaia protesta vibratamente perché il decreto lede, a suo dire, l’autonomia delle Regioni. Ma lui fa parte della stessa maggioranza politica del ministro Schillaci: non si parlano?».

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I meloniani si agitano. Non contro la Lega, o i presidente di regione, ma contro il Pd che con la segretaria Schlein «specula sulle sofferenze degli italiani», a dire di Francesco Zaffini (FdI) presidente della commissione Sanità.«Surreale, hanno perso il controllo – ha risposto il capogruppo Pd Francesco Boccia – I lavori sono bloccati per le divisioni nella maggioranza». Il testo dovrà essere convertito in legge entro il prossimo 6 agosto.