Prima ancora che l’autonomia differenziata entri in azione, l’Italia della salute è già frammentata. Un ventennio di federalismo sanitario ha favorito le disuguaglianze e la «competizione virtuosa» è rimasta sulla carta (costituzionale). La fotografia dello spezzatino indigesto arriva dal rapporto annuale del ministero della salute sui cosiddetti Lea, sigla per Livelli essenziali di assistenza, una specie di pagella di fine anno per i servizi sanitari regionali. Secondo il rapporto presentato ieri a Roma, la performance sanitaria media migliora. È un dato fisiologico visto che i dati si riferiscono al 2022, primo anno post-pandemico. Il progresso però nasconde un divario crescente tra un territorio e l’altro.

LE REGIONI che non raggiungono la sufficienza in tutte e tre le materie (ospedale, territorio e prevenzione) adesso sono 8. Non 12, come incautamente anticipato nello scorso febbraio a causa di una trasmissione tardiva dei dati. Ma comunque più delle 7 di un anno fa, quando i dati si riferivano al 2021. Quest’anno si è aggiunto l’Abruzzo che fa compagnia al solito pacchetto di regioni meridionali (Sardegna, Sicilia, Calabria, Campania e Molise), alla Val D’Aosta e all’Alto Adige, che a causa dei movimenti no vax viene regolarmente bocciata dal ministero nell’area delle coperture vaccinali. Al contrario, migliorano in tutte le materie Lombardia, Veneto e Piemonte. La sanità, già largamente regionalizzata, fa presagire quanto potrebbe succedere in altri settori grazie all’autonomia differenziata. Innanzitutto, è impossibile fissare livelli essenziali di prestazioni realistici senza garantire le risorse adeguate al loro raggiungimento. Inoltre, autonomia non fa rima con equità: tra le regioni inadempienti ci sono 4 delle 5 regioni a statuto speciale, che godono di un regime di autonomia ancora maggiore. Si salva solo il Friuli Venezia Giulia, che però è l’unica regione in cui le prestazioni sanitarie peggiorano in tutte e tre le aree monitorate. Non proprio lo spot migliore per la riforma.

ANCHE IL RITARDO di quasi due anni con cui arriva il rapporto sui Lea la dice lunga sull’inadeguatezza organizzativa delle amministrazioni regionali. Lo ammette lo stesso Domenico Mantoan, direttore generale dell’Agenzia per i Servizi sanitari regionali (Agenas), nel presentare il rapporto: «I dati nascono digitalizzati, abbiamo il fascicolo sanitario elettronico, il 15 luglio 2024 bisognerebbe presentare i dati del 2023», non quello di due anni fa. Il monitoraggio appena pubblicato determinerà l’accesso delle regioni a una quota premiale di finanziamenti, che avrà effetti verosimilmente nell’anno successivo. In questo modo tra la «fotografia» della sanità e le sue conseguenze passano quasi tre anni. Lo fa notare una nota della regione Campania secondo cui nel 2023 (anno successivo al monitoraggio) «pur essendo la regione con il minor riparto nazionale del Fondo Sanitario e con oltre 12mila dipendenti in meno rispetto alla media nazionale, ha superato i target previsti».

LA DIALETTICA tra regioni e governo centrale agita anche il percorso della conversione del decreto Liste d’attesa. Dopo la bocciatura da parte della Conferenza Stato-Regioni guidata dal leghista Fedriga, il governo ha accettato una parziale marcia indietro. Sarà riformulato l’articolo 2 che sottraeva alle regioni la vigilanza sui tempi di esami e interventi, ricorrendo anche alle ispezioni. Un emendamento del governo la riaffiderà alle Regioni: per il presidente della commissione sanità del Senato Francesco Zaffini, tuttavia, «resta il potere sostitutivo del ministero della Salute, laddove le regioni non agiscono per rimuovere le cause dell’inefficienza».

RIMANE INSODDISFATTA l’altra criticità sollevata, che probabilmente interessa più degli equilibri tra poteri: i soldi. Per allungare l’orario di lavoro dei medici e acquistare prestazioni dal privato, le regioni devono sottrarre risorse ad altri capitoli di spesa (leggi «servizi per i cittadini») perché il decreto non prevede fondi aggiuntivi. Su questo il governo non lascia spiragli. I tempi stringono: per non scadere, il dl va convertito entro il 6 agosto alla Camera. La riscrittura, che richiede anche l’ok del ministero dell’Economia, ha bloccato l’iter al Senato. Per neutralizzare le liti nella maggioranza servirà il voto di fiducia.