Ryan Coogler definisce Black Panther, un blockbuster da 110 milioni di dollari, il suo film «più personale». Il diciottesimo film dell’universo Marvel è l’adattamento del fumetto di Stan Lee e Jack Kirby che nel 1966 introduceva il primo personaggio nero del pantheon supereroico. La storia attingeva dal fermento politico e dall’ala panafricanista del movimento di liberazione african american e al dibattito allora in atto tra i pacifisti di Martin Luther King e i radicali di Malcolm X.

Nelle mani di Coogler, la voce forse più incisiva del nuovo cinema nero, il registro pop del fumetto originale si carica di tematiche assai attinenti all’era di Black Lives Matter e al rigurgito neorazzista che è il segno distintivo della presidenza Trump (come confermano dagli appelli al boicottaggio del film subito arrivati dai siti alt-right). Non casualmente Coogler è cresciuto (trent’anni dopo) sugli stessi marciapiedi di Oakland, dove Huey Newton aveva fondato il Black Panther Party.

Un’operazione che pone la domanda su quanto un format pop-culturale-commerciale si possa prestare alla voce autoriale e divenire un veicolo politico (anche se una risposta in questo senso era già pervenuta da Ta Nehishi Coates in passato intellettuale teorico della Black liberation, poi autore della nuova serie di comics Black Panther). Ne abbiamo parlato con Coogler e con due degli interpreti principali, Chadwick Boseman (T’Challa) e Lupita Nyong’o (Nakia).

Insomma, un film Marvel può anche dire alcune verità sull’identità afroamericana?

Beh, la domanda centrale che avevo in mente era proprio questa: cosa vuol dire essere africano? Era anche la domanda che sovrastava ogni decisione creativa. Il film parla di identità, del rapporto fra tradizione e innovazione, che pur essendo specifiche al contesto africano sono anche, almeno credo, molto centrali nell’ ideale umano universale. Che significa, per fare un esempio, aderire alle tradizione e allo stesso tempo allontanarsi da essa quando è necessario per il progresso di una società – quella di noi neri, come quelle di ogni popolo? È un interrogativo che in America potrebbe porsi chiunque, di qualunque provenienza. Essere cinese o filippino, che effetto ha sull’esperienza quotidiana, su di me come persona, su come mi vede il mondo e sul mio percorso di vita? Girare questo film mi ha permesso di approfondire la ricerca in un ambito che mi ha affascinato sin da quando ero bambino, e di soddisfare una antica curiosità che in definitiva era già alla radice dei miei primi due film.

Sei comunque cresciuto nella città dove sono nate le Pantere Nere, esiste un nesso fra le due cose?

Sì anche perché noi abbiamo adattato il fumetto che è uscito nel 1966, proprio quando a Oakland nasceva il partito delle Pantere. Stan Lee e Jack Kirby sono chiaramente stati influenzati dal mondo reale e da cosa stava accadendo politicamente all’epoca, soprattutto con la presa di coscienza dei neri in America e nel resto del mondo. Anche nel fumetto quindi l’eroe era soprattutto un leader politico, un re, un capo di stato che da politico deve affrontare questioni politiche, e lo fa da uomo africano. Quella serie non aveva paura di confrontarsi con tematiche molto concrete ispirandosi allo Zeitgeist degli anni Sessanta; noi cerchiamo di fare lo stesso inserendo nel film dei riferimenti ai problemi attuali.
Lupita Nyong’o: Credo che per dichiararsi riuscita un’opera d’arte debba essere pertinente. Abbiamo cominciato a lavorare su questo film in un’ America che era molto diversa politicamente da quella in cui siamo ora, e questo permette alla nostra storia di assumere significati ancora più importanti. Sono convinta che Black Panther sia destinato ad essere recepito come tale ovunque siano rilevanti questioni di appartenenza, etnia e rapporti di forza. E mi pare che la cultura popolare sia un ottimo ambito in cui porsi queste domande.
Chadwick Boseman: Il fatto che la Marvel abbia affidato il suo diciottesimo film a Ryan Coogler, con questo cast afroamericano, e un budget di portata molto rilevante dice tutto già tutto.

Al centro della trama c’è un dibattito fra eroe ed anti eroe sulle strategie dell’emancipazione, in fondo fra lotta politica resistenza armata….

Chadwick Boseman: Si tratta soprattutto della contrapposizione fra un africano cosciente delle sue origini e della propria identità e un afroamericano la cui linea genealogica è stata violentemente interrotta dalla diaspora della schiavitù. Un trauma che ogni afroamericano conosce intimamente, io stesso vivo questo conflitto, fa parte della mia personalità e pone inevitabilmente la questione di come rispondere all’oppressione. Chi non è mai stato oppresso saprà reagire in modo diverso da chi ha subito il trauma…

Al centro dell’immaginario del film c’è proprio Wakanda un limbo d’Africa mai colonizzato.

Lupita Nyong’o: È stata la rappresentazione di un possibile progresso africano, cosa poteva accadere se il continente fosse riuscito ad autodeterminare il proprio futuro. Il film crea l’immagine di questo ipotetico mondo migliore, una visione celestiale per una donna africana come me. Inoltre Black Panther è un film sul panafricanismo e la gente che ha lavorato sul set ne era la rappresentazione concreta: c’erano africani della Carolina del sud, del Canada, di Londra, della Germania, dello Zimbabwe, di Sudafrica, Ghana, Nigeria… E poi le isole: Trinidad e Tobago, Giamaica, Guyana. Tutta la ricchezza delle genti «africane».
Insomma coscienza politica ma anche passione da nerd per un supereroe?

Ryan Coogler: Quando ero ragazzo avevo molti supereroi preferiti, erano tutti bianchi. Andavo a vedere i film: gli X-Men, adoro Wolverine, Batman e Superman. Ma non è che pensassi al fatto che Batman era un bianco, capisci cosa voglio dire? Adoravo Batman perché aveva i gadget più gagliardi e un costume da paura. Certo se poi ti fermi a pensarci nessuno di quei personaggi mi assomigliava. È che quando sei appassionato, sei un fan, non ci fai caso, pensi solo: «Madonna che figo! Voglio essere come lui! Voglio mettermi la stessa tuta». Vorrei che Black Panther funzionasse allo stesso modo.