Pur di non finanziare gli enti pubblici il governo ha regalato milioni di euro del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) a gestori di studentati privati che applicano canoni più alti di quelli di mercato. Se l’obiettivo di realizzare 7.500 nuovi posti con due bandi del 2022 è fallito, molti di quei fondi sono stati però spesi. Per quei posti il Ministero dell’università e della ricerca (Mur) ha anticipato il 10% del cofinanziamento alla sottoscrizione di un atto d’obbligo. Nei casi di acquisto di immobili, il Mur si è impegnato a erogare l’intero importo residuo del cofinanziamento dopo la trasmissione di un contratto preliminare di compravendita; i gestori hanno poi stipulato i rogiti per l’acquisto degli immobili: entro il 20 dicembre 2022 per il primo bando, entro il 28 febbraio 2023 per il secondo. Per gli immobili locati, il Mur rimborsa i gestori ogni sei mesi. Ma se per ora i posti sono esclusi dall’offerta creata con il Pnrr, il Mur chiederà indietro i fondi? Smetterà di pagare i canoni? Esproprierà gli immobili acquistati? Accorcerà il periodo di copertura delle spese?

Il Pnrr ha infatti previsto la copertura dei costi di gestione per nuovi posti per tre anni. Ma il Mur non ha calcolato il costo unitario per posto letto (lo ha fatto solo dopo i primi due bandi), quindi per gli interventi finanziati il costo varia a seconda dei progetti. A conti fatti, sono stati approvati progetti per 278 milioni di euro per 8.581posti (di cui solo 3.400 per il diritto allo studio secondo una previsione del Mur) ovvero 32mila euro a posto letto – che equivale a un contributo mensile per tre anni di quasi 900 euro a posto. Ma per raggiungere l’obiettivo con scadenza nel 2026, la creazione di 52mila posti per raggiungere il target di 60mila nuovi posti, ci sono meno fondi: 660 milioni di euro, un contributo di 12mila euro a posto, o 300 euro al mese per tre anni. Se con 900 euro al mese per posto il primo obiettivo – 7.500 posti entro il 2022 – non è stato raggiunto, è lecito chiedersi come sia possibile raggiungere il secondo, con meno fondi per creare più posti letto.

Sul funzionamento del ‘Fondo housing universitario’, la seconda tranche di risorse destinata ad attuare la misura del Pnrr entro il 2026, si sa ancora poco. A cominciare dal cambiamento della «baseline»: obiettivo del Pnrr è portare i posti da 40mila a oltre 100mila, dove i 40mila posti sono quelli degli enti per il diritto allo studio. Ma il decreto che istituisce il Fondo cambia la «baseline»: l’offerta, ora definita «strutturata», sarebbe di circa 55mila posti, 15mila in più. Da dove vengono? Questa offerta non include la prima tranche di posti finanziati con i due bandi del 2022. Include però, per la prima volta, i posti nelle strutture dell’Associazione collegi e residenze universitarie (Acru), «di ispirazione cristiana», mai censiti dal Mur e quindi al di fuori dell’offerta pubblica. Forse il trucco di includerli nell’offerta «strutturata», facendo lievitare l’offerta disponibile, serve a ridurre il «gap» rispetto all’obiettivo da raggiungere (la copertura del 20% del fabbisogno di posti degli studenti fuorisede): si devono realizzare meno posti nuovi entro il 2026, e a parità di importo totale disponibile (660 milioni di euro) il contributo pubblico per ogni posto nuovo aumenta.

Per l’attuazione del Fondo il governo ha pubblicato un avviso per il reperimento di immobili che diversi soggetti, tra cui le regioni e gli enti locali, possono mettere a disposizione per creare studentati. La scadenza per presentare le proposte era fissata all’11 luglio. Un altro avviso è stato pubblicato da Invimit, la società di gestione del Ministero delle finanze, per individuare immobili «al fine di acquisirne la proprietà e candidarli per l’ottenimento delle risorse previste dal Pnrr». Questo avviso, però, scade il 4 agosto. Non è chiaro quale sarà la procedura di valutazione delle proposte, presentate con due avvisi diversi per gli stessi fondi.

Sarebbe stato più semplice finanziare gli enti pubblici che hanno come missione quella di garantire il diritto allo studio. Anche perché allo stato attuale i posti pubblici sono oggetto di un monitoraggio da parte del Mur che non vale per i privati. Dal 2000 lo Stato ha speso oltre un miliardo di euro per studentati. Prima della riforma del Pnrr per i gestori privati vigeva l’obbligo di destinare il 20% dei posti (pochissimo) a studenti nelle graduatorie per il diritto allo studio. Ma il dato sui posti destinati al diritto allo studio è pubblicato solo per gli enti pubblici. Infine, se gli immobili acquistati e locati hanno un vincolo d’uso di venticinque e nove anni rispettivamente, è più facile che trascorso questo periodo quelli pubblici restino pubblici, mentre nulla impedisce che quelli privati diventino alberghi per turisti.

La deregolamentazione di un settore finora gestito dal pubblico per aprirlo al mercato rischia di alimentare l’emergenza abitativa ma anche la spirale negativa dell’economia italiana. Al 2030 la popolazione in età scolastica diminuirà del 16% (nel Mezzogiorno il calo sarà maggiore) e se anche il numero di laureati continuerà a diminuire e quello di giovani che emigrano ad aumentare, a risentirne sarà lo sviluppo settori economici avanzati e la capacità di generare reddito. Il tutto in un contesto di calo demografico, invecchiamento della popolazione, e aumento di richiesta di servizi. Un circolo vizioso difficile da rompere senza politiche pubbliche per l’abitare e per il diritto allo studio.