Desaparecidos, ma non dalla coscienza del mondo. E mai come oggi presenti nel cuore di quanti hanno lottato perché fosse fatta giustizia.

All’indomani della storica sentenza del processo di appello sul Plan Condor, terminato con la condanna all’ergastolo di tutti i 24 imputati, c’è spazio solo per l’emozione. E a esprimerla sono in tanti durante la conferenza stampa promossa ieri dalla Fondazione Basso per commentare quella che i familiari delle vittime e tutti coloro che li hanno sostenuti – dalla Fondazione stessa all’Associazione 24Marzo passando per tutti gli avvocati di parte civile – hanno vissuto come una vittoria piena e completa.

Tra loro anche il viceministro della Giustizia boliviana Diego Ernesto Jiménez, presente in aula al momento della sentenza, e il sottosegretario alla presidenza dell’Uruguay Miguel Ángel Toma, anche lui in aula in rappresentanza di un governo che si è costituito parte civile e ha collaborato attivamente con la giustizia italiana consegnando prove decisive contro i tredici militari uruguaiani coinvolti.

A evidenziare la rilevanza storica del processo è stata in particolare l’avvocata di parte civile Alicia Mejía, leggendo le due sentenze di primo e di secondo grado: «La prima ha riconosciuto per la prima volta a livello giurisdizionale l’esistenza del Plan Condor come un’operazione finalizzata ad annientare la cosiddetta sovversione», condannando otto esponenti della catena di comando; «la seconda ha individuato le responsabilità personali di singoli soggetti nei casi di vittime concrete».

Le responsabilità, cioè, come ha spiegato un altro avvocato di parte civile, Arturo Salerni, di quelle figure cosiddette intermedie, colpevoli di «sub-operazioni di sterminio», a cui erano stati precedentemente addebitati solo i reati, ormai prescritti, di sequestro e tortura. È il riconoscimento – ha chiarito l’avvocato Giancarlo Maniga – che «le condotte differenziate che hanno concorso all’uccisione delle vittime sono tutte legate e unificate dall’evento finale».

Sin conclude così, almeno per ora, nella speranza di una conferma della sentenza in Cassazione, un lungo cammino iniziato nel 1999 da un’inchiesta del pm Giancarlo Capaldo partita dalle denunce di cinque donne italo-uruguaiane e una italo-argentina i cui parenti erano rimasti vittime del Plan Condor.

Tra loro l’italo-uruguaiana Aurora Meloni, che, ricordando quel giorno, oggi commenta: «Allora non immaginavamo che avremmo infine raggiunto il nostro obiettivo».