«Un futuro alla ricerca». Questa la richiesta di un lungo elenco di scienziate e scienziati italiani, tra i più illustri a livello internazionale, contenuta in una lettera alla politica in vista delle elezioni del 25 settembre. Gli accademici, guidati dal premio Nobel Giorgio Parisi, chiedono che il prossimo governo faccia proprio un «Piano quinquennale per la ricerca pubblica». Tra i firmatari, i colleghi di Parisi Ugo Amaldi, Luciano Maiani, Lucia Votano e Federico Ronchetti; gli immunologi Alberto Mantovani e Angela Santoni; il demografo Massimo Livi-Bacci e l’economista Alberto Quadrio Curzio.

L’appello punta a rendere strutturale l’investimento straordinario consentito dal Pnrr e destinato a esaurirsi nel 2026. Considerare il Pnrr la panacea per i problemi della ricerca italiana sarebbe un errore. «I fondi del Pnrr hanno dato al nostro Paese una grande opportunità – scrivono i professori – Ma questi progetti non riguardano che alcuni temi di ricerca e, comunque, una volta terminati i fondi del Pnrr cosa succederà? Che fine faranno i progetti iniziati? Come saranno finanziate, nel frattempo e successivamente, le ricerche non considerate dal Pnrr?».

Il Piano quinquennale è una dettagliata analisi dell’impatto del Piano nazionale di ripresa e resilienza sulla ricerca italiana. Un dato su tutti: «Suddividendo i 19,2 miliardi stanziati nel Pnrr per ricerca e sviluppo – scrivono gli autori – è stata fatta una precisa scelta: alle imprese va il 77% delle risorse e alla ricerca pubblica è destinato il 23%». La richiesta è di puntare invece sulla ricerca pubblica, aumentando in modo crescente e stabile i fondi a disposizione per università ed enti di ricerca fino a colmare il vuoto che sarà lasciato dalla chiusura del Pnrr.

Il Piano propone di aggiungere 10,4 miliardi al bilancio del ministero dell’Università e della ricerca, in modo che la quota di ricerca e sviluppo sul Pil rimanga al di sopra dello 0,7% anche dopo il 2026. L’Italia si avvicinerebbe alla Francia, che destina lo 0,8% del Pil alla ricerca, e alla Germania, già oltre l’1,1%. «La politica – si legge nel documento – deve essere capace di trasformare l’eccezionalità del Pnrr in una situazione strutturale».

Non è una richiesta generica: gli scienziati dettagliano quali voci e in quale momento spalmare i finanziamenti pubblici e riforme organizzative. Senza queste risorse, la quota di ricerca e sviluppo arriverebbe allo 0,71% nel 2023 grazie al Pnrr, ma ricadrebbe allo 0,55% nel 2028. Riportando così l’Italia agli anni bui del periodo 2009-2018 durante il quale gli investimenti pubblici per ricerca e innovazione sono calati, prima di risalire a partire dal governo Conte 1.

Il «piano quinquennale» era già stato fatto proprio dalla ministra dell’università e della ricerca Maria Cristina Messa, che ne aveva assorbito le linee principali in un documento intitolato «Strategia italiana per la ricerca fondamentale». Con la crisi di governo, la «strategia» era destinata a rimanere nei cassetti del ministero uscente. La proposta degli scienziati è che ora quel piano torni alla ribalta «affinché entri a far parte del dibattito sociale e politico».