Nella sua breve esistenza, spezzata dalla violenza fascista, Piero Gobetti (1901-1926) scrive sulle vicende italiane del primo dopoguerra con appassionata intelligenza, maturando la propria originale posizione di «rivoluzionario liberale» osservatore e sostenitore dell’esperienza torinese dei Consigli di fabbrica.

UNA PRODUZIONE ricchissima, nonostante l’arco temporale molto limitato, che non smette di offrire spunti a chi voglia continuare a interrogarla, come dimostra il volume curato da Francesco Pallante e Pietro Polito, Antifascismo, Resistenza, Costituzione. Piero Gobetti ‘costituente’ (Aras edizioni, pp, 332, euro 14). Cercare tracce del giovane intellettuale nel dibattito e nel risultato dell’Assemblea costituente è quel che si propongono i saggi qui raccolti, alcuni di taglio storico, altri giuridico, altri ancora teorico-politico, che riescono a mostrarne efficacemente vivacità e capacità di dialogo con i diversi da sé – emblematico il rapporto (ricostruito da Bartolo Gariglio) con il cattolico inquieto e futuro costituente democristiano Igino Giordani.

MA L’INTENTO DEL LIBRO non è solo genealogico o, peggio, antiquario. A stimolare la ricerca è il bisogno di tornare a chiedersi, attraverso Gobetti, cosa significhi, oggi, la democrazia. Ciò che emerge, sopra ogni altro, è il valore del conflitto. Si parla di autentica «lotta politica», organizzata, da non confondersi assolutamente con un inconcludente esibizionismo individualistico di «capi», sempre pronti a qualunque piroetta trasformistica, acclamati dalla folla di seguaci. Conflitto di classe – questa la sua vera natura – attraverso forze strutturate, vive e non burocratizzate. Oltre alla forma, decisivo ne è il fine: la lotta deve essere orientata alla ricerca di accordi, non all’imposizione pura e semplice della volontà di una parte, occasionalmente maggioritaria.

Condizione necessaria per il conflitto è la partecipazione, purché sia «cosciente», fondata cioè su «una solida e intima educazione politica». Un’educazione che ciascuno deve sentire la responsabilità di costruirsi, e che deve essere possibile grazie a riviste, associazioni, partiti stessi.

IL MODELLO di Gobetti sono i proletari che discutono con Gramsci durante quell’esperienza consiliare che agli occhi del giovane liberale «ha il pregio di mettere la classe operaia in relazione conflittuale con la componente imprenditoriale della società, facendo degli operai i coprotagonisti delle vicende economiche» (Pallante). E quindi, facendo emergere nel suo seno una nuova classe dirigente.

Gobetti, laureatosi in giurisprudenza nell’ateneo torinese, è allievo di Gaetano Mosca, dal quale ricava la convinzione che a governare siano necessariamente le élite, volgendola tuttavia in senso democratico.

IL FASCISMO, che è «riduzione delle masse alla passività e della politica a compromesso trasformista» (Gianluca Bascherini), impedisce il maturare nella società italiana delle energie migliori, quelle che si forgiano nella libera battaglia delle idee. A generalizzarsi è l’animo schiavile, la pigrizia del consenso verso il demagogo, la sconfitta di quella «onestà» il cui significato vero è «serietà», «solo mezzo che conduce a rettitudine di giudizio e di studio».

Quando è carente sia fra i governanti sia fra i governati, questi ultimi rischiano molto facilmente di diventare prede – come opportunamente segnala la costituzionalista Chiara Tripodina – di quelli che Gobetti chiamava «domatori e diseducatori». Una schiera di cui nella storia italiana Benito Mussolini è certamente esemplare sommo, ma purtroppo non unico.